Senato. I banchi del GovernoChi l’avrebbe mai detto che Matteo Renzi sarebbe finito per “arruolare” nella sua campagna referendaria buona parte di quel Pantheon politico, culturale e intellettuale che in questi anni proprio il renzismo sembrava aver messo in soffitta? Chi poteva immaginare che per giocarsi quella che è a tutti gli effetti la sua partita più importante – è stato il premier ha trasformare il voto di ottobre sulla riforma costituzionale in un referendum sulla sua persona – si sarebbe appellato a quel passato ormai remoto del Pci lontano anni luce dall’attuale leader del Pd? Eppure in pochi giorni Renzi e Maria Elena Boschi hanno messo in campo proprio i padri nobili del Partito Comunista, a partire da quel Luigi Berlinguer che solo qualche anno fa il ministro delle Riforme aveva trattato con una certa sufficienza dicendo di preferirgli Amintore Fanfani, una delle figure ideologicamente più imponenti della Dc. Non solo Berlinguer, ma pure Nilde Iotti (che il 2 giugno a Piombino sarà al centro di un’iniziativa sul referendum cui parteciperà la Boschi) e Pietro Ingrao (arruolato sui social network come testimonial della campagna per il “sì”).

Insomma, una massiccia rispolverata alle radici più antiche e più solide della tradizione non solo di sinistra, ma comunista tout court. Basti pensare che nessuno dei tre “padri” finiti oggi, loro malgrado, a tirare la volata a Renzi e al referendum hanno mai conosciuto né il Pd (nato nel 2007 dalle ceneri dei Ds) né tantomeno i Democratici di sinistra (di cui solo la Iotti nel 1998 ha lambito la nascita). Senza contare che uno come Ingrao non ha mai digerito la svolta della Bolognina che nel 1991 portò alla fine del Pci e alla nascita del Pds dove, non a caso, militò solo due anni, fino all’addio nel 1993. Se a questo quadro si aggiunge la recente chiamata alle armi della Boschi ai “veri partigiani che voteranno sì” al referendum, è chiaro che la strategia di Palazzo Chigi mira – almeno in questa fase – a serrare le fila dell’ala sinistra del Pd.

D’altra parte, ad oggi la minoranza dem è ancora molto fredda sul referendum. E questo nonostante il segretario del Pd abbia mobilitato tutto il partito e tutto il governo in una campagna che durerà l’intera estate e che punta dritta ad ottobre come se il referendum fosse la madre di tutte le battaglie. Renzi, infatti, è ben consapevole che la tornata amministrativa di giugno potrebbe risolversi in un vero e proprio flop, al punto che il Pd rischia seriamente di restare fuori dai ballottaggi a Roma e Napoli. Nella capitale, infatti, Roberto Giachetti ha sì recuperato terreno, ma non è ancora certo di arrivare al secondo turno, mentre nel capoluogo campano Valeria Valente rischia addirittura di arrivare quarta. Così, il premier ha deciso di guardare avanti e spostare l’orizzonte di qualsiasi resa dei conti ad ottobre. In caso di vittoria dei “sì” avrebbe un’investitura popolare che lo rafforzerebbe enormemente (a prescindere dal risultato delle amministrative), in caso di vittoria dei “no” – lo ha ammesso anche uno dei suoi main sponsor, cioè quel Giorgio Napolitano che a Palazzo Chigi ce lo ha portato – difficilmente riuscirebbe a restare in sella. Un quadro che hanno chiaro anche gli oppositori interni di Renzi che, proprio per questa ragione, ancora non sono scesi in campo sul referendum. Anche per loro, quella di ottobre è l’ultima possibilità di disarcionare il premier e “riprendersi” il Pd. Ed è per questo che il leader dem ha deciso di battere proprio sull’elettorato che si riconosce nella sinistra del Pd evocando il loro Pantheon di riferimento. Il loro e non certo quello di Renzi.

 

 

 

 

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