Venerdì 13 dicembre 2013 – Santa Lucia – Roma

Ed eccoci alla tirata finale di un anno drammatico per tutti gli italiani. Un anno in cui oltre 100.000 aziende hanno abbassato la saracinesca. Milioni di italiani hanno perso il lavoro e la speranza di ritrovarlo. Qualche centinaio di persone ha detto Basta! e se n’è andato nel mondo a fianco. Un’ecatombe annunciata e non evitata. La magistratura s’è occupata per un anno soprattutto di mignotte, vere e presunte. Il Parlamento ha dedicato ore preziose a licenziare Silvio Berlusconi. Il governo ha pensato principalmente ad inchiodare culi alle poltrone. Amen. Intanto, le tasche del popolo si vuotavano sempre di più. E non certo per acquistare tartine e caviale Beluga. Il tracollo arrivava quotidianamente per comprare pane e povertà. Gli abiti, lisi, sono quelli dei compleanni al tempo del Drive In. Le scarpe, risuolate male dai ciabattini rumeni, festeggiano la maggiore età. Ripescate nell’ombra di sgabuzzini e armadi. Solo le lacrime, di rabbia o disperazione, sono fresche di giornata.
Piange, il popolo italiano. Perché sa che il danno se l’è procurato da solo. Al tempo, dando a quel Prodi la facoltà di decidere di entrare nell’euro. Un gravissimo errore che, per esempio, l’intelligentissima Gran Bretagna non ha commesso. A seguire, sperando in un ribaltone politico che si è dimostrato inutile e dannoso.
Qualcuno mi dirà Sei di parte. Forse. Ma come stiamo adesso? E non cadiamo, rispondendo, nella solita banalità che sia stata colpa di Berlusconi. È diventata una sorta di litania sciocca e bugiarda. Farisea, direi. Se stiamo con le pezze al culo, cerchiamo ben altri responsabili. Le banche, magari. Coi loro tassi da usura e la sordità nei confronti della gente in difficoltà. E, nel piccolo, quei commercianti truffaldini che raddoppiarono i prezzi, all’arrivo dell’euro, dimezzando la qualità delle merci. Anzi, azzerandola. Eh, già! Furono proprio loro che sostituirono i prodotti nazionali con la merda cinese. Non facciamo finta di non sapere. E fummo noi che glielo consentimmo, acquistandola.
Ora siamo a terra. Sconfitti. Feriti nella dignità e nell’orgoglio della nostra ultramillenaria Storia. I barbari vincono su Roma. Noi li accogliamo senza difenderci. Anzi, li osanniamo. La Kulona la ossequiamo solo per far dispetto al Cavaliere. Ai franzosi stendiamo tappeti rossi, nonostante ci abbiano fottuto il petrolio libico. E loro ridacchiano e brindano. Una a boccaloni di birra, rutto incluso. Gli altri, a spocchiose stitiche flûtes di sciampagna frizzantina. Alla faccia nostra e dei nostri morti.
No, non sarà un buon natale. Ma un disperato ultimo grido di dolore. Un’ultima richiesta di attenzione da parte di una Nazione che vuole vivere e viene offesa e derisa soprattutto dai propri governanti. Quale sarebbe il regalo gradito? Difficile dirlo. Forse, il lavoro. O una sorta di amnistia, o magari solo un indulto, per tutti coloro che non hanno modo di onorare il debito fiscale, ma vogliono continuare a lavorare e a dare lavoro. Sarebbe un modo per aiutare aziende in difficoltà…
Non so cosa scriverei io, Nino Spirlì, nella lettera al Bambinello. Forse, Gli chiederei una solidarietà vera fra le persone. O, più verosimilmente, un assegno a sei zeri a nome mio. Sono combattuto. Ma, in guerra, ognuno pensa a sé…
… Fra me e me. Onestamente.

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