Martedì 15 aprile 2014 – Sant’Annibale – verso Catania

Ho dovuto aspettare due giorni, prima di mettermi a scrivere. Ho dovuto far decantare tutta l’adrenalina che se n’era andata in giro per tutto l’organismo. Ed anche quel disperato senso di impotenza che ti prende ogni qualvolta ti ritrovi davanti alla morte.

Solo pochi giorni fa avevo scritto, per ilgiornaleoff del processo a Socrate. E già la penna vacillava. Perché non ho difese personali davanti alla morte di un Giusto. E Socrate era Giusto. E, peraltro, uno dei pochi Uomini che amo sopra ogni cosa.

Già! Mio Padre, Gesù Cristo, Socrate, Siddharta Gotama.

A Loro si aggiungono pochi altri Contemporanei. I Nomi? Li sapete già.

Questa volta, senza poterlo minimamente immaginare, mi sono ritrovato testimone della morte del Cristo. La morte vera, come è raccontata nel Vangelo.

No, tranquilli: non ho bevuto e non uso stupefacenti. Non tiro colle, né candeggine nei sacchetti di plastica. Sono lucido e cosciente. Per come posso.

E racconto…

Domenica delle Palme, dopo aver ringraziato mia Madre che era andata a Messa per farmi benedire, come tutti gli anni, la palma e l’ulivo, e dopo aver pranzato da mia sorella Eleonora (non prima di essere passato da casa di mia sorella Loredana ed aver scoperchiato il tegame del ragù per assaggiarlo), sono andato a Seminara, in compagnia dell’Amico e collega Michel Dessì per assistere alla sacra rappresentazione della Passione di Cristo. Non proprio di malavoglia, ma pronto alla noia. Generalmente queste manifestazioni sono pessime e pretenziose. E approssimative. 

 

 

 

 

Un cielo terso e un caldo estivo accompagnavano i preparativi, mentre io, nel centro della piazza, che qualche decennio addietro fu teatro di tristi fatti di faida, chiacchieravo con il parroco della cittadina della Madonna dei Poveri. Una delle Madonne più ricche del mondo. Soprattutto di devozione. Ma alla quale non manca un inimitabile tesoro di opere d’arte, offerte nei secoli da popolo e potenti proprio a Lei, la Vergine povera vestita d’argento.

Più parlavo, più sentivo il caldo quasi africano addosso. Sicuramente non di stagione. Direi, quasi eccessivo.

Poi, finalmente…

Le casse della fonica (ammazza, che impianto!) hanno cominciato a diffondere una musica misticotrionfale. E il corteo storico, con tanto di rami di palme ondeggianti, ha cominciato a scendere dalla parte più alta del paese verso la piazza.

E, già lì, una prima certa impressione. La gente, come rispondendo ad un segnale, si è ammutolita di colpo. Rispettosa di un doloroso destino ben noto. A primo acchito, ad essere onesti, il Cristo non mi sembrava tanto per la quale. Forse troppo giovane. Ma il Cielo quel giorno non mi ha concesso il beneficio del dubbio. Né dell’ironia. Perché quei quattro luoghi deputati sulla piazza e il sagrato della Basilica hanno prodotto uno dei miracoli in assoluto più potenti. Il connubio fra Arte e Divino. Proprio come in quel lontano Teatro greco. Quello delle prime rappresentazioni del Sacro.

Già dalle prime battute, il Nazareno ha trasmesso tutto il Pathos che un uomo possa provare al cospetto della morte. Un pathos povero, semplice, contadino, di paese. Senza intellettualismi o filosofismi. Una sofferenza fatta di terra grassa, di creta, come quella lavorata a mano dai maestri vasai di Seminara.

Qualcosa di atavico, animalesco, non ragionato. Innato. In assoluta comunione con le pagine del Vangelo che venivano rappresentate. Una sorta di Parola di D*o incarnata. Mi dicevo fra me “Sei matto!”, ma non riuscivo a smettere di commuovermi. Ingoiavo il magone e timidamente e nascostamente asciugavo qualche corno di lacrima che non si faceva riassorbire dagli occhi.

Perché piangevo lo sapevo.

Stavo rivivendo una doppia commozione. Forse tripla. Se unisco a quella partigiana del rispetto della tradizione, una più nobile di compassione per la sorte del Cristo e quella ancora più intima dell’omaggio sentimentale a Pier Paolo Pasolini e alla sua grandissima intuizione nell’usare gente povera e delle baracche per farle interpretare i ruoli più importanti nei suoi film più belli. Da Edipo al Fiore delle mille e una notte, al Vangelo secondo Matteo.

Ecco cosa è accaduto: il prodigio dell’immedesimazione profonda. Tanto da far commuovere il Cielo.

Veramente.

Al Golgota (ricostruito perfettamente ad un angolo della piazza già occupato dal palco antico della storica banda di Seminara), mentre il Cristo restituiva l’Anima al Padre, INCREDIBILMENTE, è venuto giù il diluvio. Ma la cosa folle è che il cielo attorno al paese era illuminato dal sole. E’ stato come se da lassù Qualcuno abbia voluto premiare lo sforzo e l’abbandono all’Arte di un gruppo di sinceri devoti. E quel premio è servito a chi umilmente assisteva a sentirsi parte importante dello spettacolo stesso. Incarnando quell’umanità attonita e spaventata di duemila anni fa, che non credette, ma dovette pentirsene.

Chissà se accade ad ogni sacra rappresentazione. O chissà se quella pioggia non sia arrivata come risposta ad una precisa preghiera. Lo sanno solo il Cielo che l’ha creata e la Terra che l’ha bevuta. O, forse, nemmeno loro.

La differenza fra credere e non credere è Credere…

Fatto sta che, ancora una volta, l’Arte ha goduto della propria sorte. Quell’Unicità inimitabile che tutti vorrebbero poter negare, ma nessuno è mai riuscito a cambiare.

Come quella sera, in quel teatro, quando apparve quel pipistrello che spaventò la Prima Attrice… Quello di cui di parlò l’inimitabile Unico Pirandello…

Fra me e me, complimentandomi con tutti gli Attori e con Enzo Attisano, Caro Amico, che dovrebbe pensarci, a fare il regista… 😉

 

 

 

 

 

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