Venerdì 17 novembre, 2017 – Santa Elisabetta di Ungheria – a Casa Spirlì, in Calabria

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“… E pulisci ben bene il piatto col pane, ché c’è gente che muore di fame e qui non si butta niente…”, me lo diceva sempre zia Rosina, quand’ero piccolo e scappavo da casa mia, con la biciclettina, per correre da Lei e zio Filippo che mi portavano con loro, in campagna, a scorrazzare sotto gli ulivi secolari, a piedi nudi e senza costrizioni. Quanto mi divertivo, a mangiare con loro al fresco degli aranci e dei limoni dal legno profumato, bevendo dalla “bumbula” di terracotta, interrata fino a metà pancia per mantenere fresca l’acqua della sorgente! Ero magro, allora, come uno stelo d’origano, e mangiavo pochissimo. Ma in campagna mi lasciavo andare a delle sbafate epiche. Era il suo pane, quello impastato dalla zia del cuore, che mi piaceva: non lievitava mai abbastanza, ed aveva la mollica più dura di ogni altro pane del paese, o, quanto meno, era meno soffice. Le sue sorelle le rimproveravano una sorta di superficialità nell’impastarlo. Ma Lei era così: “arrunzava”… Del resto, era uno spirito libero! Quello, mi piaceva di zia Rosina. Il menefottismo! La fissazione per la pulizia. E il suo pane semi azzimo. Ah, no, non solo. Andavo matto per i suoi sughi soffritti per ore. E, dunque, vai con la Scarpetta!

Mi convinceva tristemente, poi, l’immagine di chi, più sfortunato, non avrebbe messo nel piatto tanto ben di Dio. Mi dispiaceva buttare via quello che altri non si potevano permettere. E, chiudendo gli occhi, immaginavo che quell’ultimo  boccone di pane intriso di condimento lo stessi mangiando come fossi un altro bambino. Un bambinello povero che quel sugo non lo aveva, forse, manco a Natale. Quella sensazione l’ho mantenuta per tutti questi anni. E la mantengo ancora. Per questo non lascio mai nulla nel piatto. Non butto quasi nulla nel contenitore dell’umido e riciclo tutto quello che posso. Sono sempre più convinto che l’avanzo del giorno prima sia un ottimo ingrediente per il pranzo del giorno dopo. E trovo cafone chi mangia “analizzando” le pietanze. Chi lascia nel piatto anche solo un grammo di carne, pesce, verdure o condimento. Trovo cafone e irrispettoso chi, di una bistecca, ingoia solo il cuore tenero, mandando in discarica il grassetto, il nervetto, la carne attaccata all’osso. Trovo cafone lasciare nel piatto una pur minima porzioncina di pietanza: è come offendere chi ha passato ore ai fornelli a preparare pranzi e cene per il piacere dei commensali.

Trovo cafone scaricare nell’immondizia il bene di Dio, mentre, oggi più di quando ero piccolo io, ci sono milioni di esseri umani che per un solo chicco di riso farebbero follie.

Cafone e più cafone recitare il ruolo del “signore”, pensando che esserlo significhi non dare valore alle cose. Al cibo, soprattutto. E, di una portata, mangiarne meno della metà, come se il resto non avesse alcun valore. Eppure, in quel rifiuto c’è parte di una vita, una morte, il lavoro di tanti uomini, il calore del sole e la benedizione della pioggia. C’è la volontà di Dio e la coscienza dell’uomo. C’è il Bene.

Il male, invece, è proprio nel rifiuto. Nella mancanza di considerazione. Nella disattenzione. Nella superficialità.

Il male è cafone.

La “scarpetta” non è solo gola, ma è una scelta. Un premio. Un grazie. Una gesto di compassione.

#frameeme

 

 

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