Il caos attorno e l’affetto che supera la distanza di sicurezza
“Quando tutto intorno è caos – guarda a ciò che hai dentro e respira profondamente: siamo ancora vivi e dobbiamo combattere con tutte le forze”.
Ripetiamocelo tutti come un mantra.
Questa cosa che ci è piombata addosso ed in pochissimo tempo – tanto da non essere forse neppure riusciti a capirla completamente – è la nostra guerra contemporanea ed ha la faccia evanescente di un virus: il Covid – 19.
Io sono nata nel 1969 – l’anno dello sbarco sulla luna – e la guerra finora l’avevo solo letta sui libri di scuola o vista al cinema; ma questa che stiamo vivendo è comunque la battaglia più grande che dovremo affrontare – senza esserci minimamente preparati all’evento.
Siamo passati dalla routine standard delle nostre vite: fatta di lavoro, famiglia, figli ed animali domestici – al doverci riorganizzare una esistenza che fosse dignitosa e tollerabile.
Le giornate al lavoro fuori casa – fatte di incontri, scambi interpersonali, incazzature e confronti – sono diventate giornate chiuse all’interno di mura domestiche.
Idem per i rapporti umani e sociali.
I primi – quelli strettamente famigliari – racchiusi in un nido che può risultare prigione per chi ha gravi problematiche famigliari (penso alle donne che subiscono da sempre soprusi – botte o angherie o a coloro che hanno in casa un figlio o famigliare con qualche handicap fisico o mentale).
Ridotti all’osso quelli sociali.
Ci dobbiamo tenere tutti a distanza di sicurezza – possibilmente con mascherine e guanti – noialtri italiani sbacciucchioni ed affettuosi per natura.
Eppure dobbiamo e dovremo continuare a farlo – sempre di più e con maggior convinzione – visto il numero dei contagiati che cresce esponenzialmente ed il numero dei cretini o cretine che ancora non hanno capito che sono state catapultati in una guerra globale.
Oggi leggo di persone che – in barba ai vari decreti emanati in questi giorni – ha continuato imperterrita a fregarsene di tutto e tutti; oggi vedo per la prima volta in vita mia – l’esercito che fa la parata con le bare a Bergamo.
Penso con malcelata tristezza e rassegnata compassione che in quelle bare c’è qualcosa di noi che se ne sta andando; penso a quelle persone che sono morte in ospedali stracolmi di malati – in esubero rispetto ai posti letto; penso al personale sanitario che stremato da settimane di turni massacranti ha dovuto dichiararne il decesso; penso ai famigliari lontani – a cui è stata comunicata la loro morte e sì – mi immedesimo e soffro terribilmente.
Esiste una sofferenza maggiore che travalica il proprio dolore fisico e mentale? Sì, l’impotenza.
Il mio sgomento nasce dall’impotenza di fronte ad un virus che rischia di togliermi la capacità di lottare per chi amo.
Mi mantengo a distanza di sicurezza anche oggi e questa cosa mi tocca nel profondo.
Forse perché oggi è la festa del babbo; forse perché se non fosse già surreale e penosa la distanza – per la prima volta in vita mia – ho delegato ad un corriere il pacchettino del regalo e ad una telefonata – i miei auguri – con le solite raccomandazioni a stare in casa: forse perché mio babbo lo conosco e non è mai stato fermo in vita sua.
Riaggancio il telefono col macigno sul cuore della consapevolezza: che stavolta no – stavolta neppure io potrei fare di più di quello che faccio.
A distanza di sicurezza.
Auguri a tutti i padri ed a tutte le figlie che oggi non possono abbracciarli.
Paola Orrico