Racconto 7 / Le sorelle lucerna
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Il racconto (si sa) ha avuto un calo di popolarità – e non parliamo di quello musicale che praticamente è sempre stato un fanalino di coda -. La musica, i suoi strumenti, i suoi protagonisti hanno ispirato poco quanti per necessità o professione o semplicamente per passare il tempo si sono cimentati e si cimentano con le parole. Eppure i soggetti non mancano. Dal pianoforte al flauto traverso, dalle arie barocche ai tempi irregolari di una sonata del Novecento, fino ad arrivare ai giorni nostri, con l’elettronica, la computer music e la rivisitazione in chiave moderna delle antiche polifonie. Un mondo coi suoi “abitanti” col quale si possono inventare delle storie. “Fuori Tono” continua – muovendosi non solo nell’era moderna di cui per sua scelta si occupa – a proporre periodicamente un racconto musicale, accompagnato da una colonna sonora e da un video che possono rappresentare il soggetto. Dopo “Una Rimini da sogno” (29/03/2011), ”Uno Stabat Mater che consola” (29/04/2011) e “Le paure di Rumolandia” (30/05/2011), “Suono I, Suono II, Suono III“ (30/12/2012), “Non entrate in quell’auditorium…” (28/01/2013) e “Il mistero di San Crispino” (27/02/2013) e Le sorelle Lucerna
Se c’erano degli angeli, quelli erano proprio le sorelle Lucerna. Creature che alla gente piaceva immaginare così -. “Fenomeni”, li chiamava chi era stato ai loro concerti. Erano pianiste. E che virtuose. Si comportavano come una falange al fronte, tenaci e unite ad affrontare i repertori più vertiginosi. Il loro pezzi forti? I brani di “Liz, proprio Liz”, una signora insisteva con le amiche al bar; ma una del gruppetto – la più scettica – aveva storto il naso: “Franz Liszt intendi dire”. L’altra annuiva raccontando della “musica del diavolo”, che si chiama “Mephisto walzer”. Pagine del secolo Ottocento di grande virtuosismo. Che brave queste sorelle, si sentiva esclamare. In tutta questa vicenda però, non tornavan alcune cose. Che con il tempo però vennero chiarite.
Le fanciulle non erano arrivate da Lucerna, come il loro soprannome poteva far capire. La loro città nativa era Budapest e con la Svizzera al massimo c’entravano perché lassù avevano degli zii. Inoltre non eran “solo” sorelle, ma gemelle. Proprio così: erano nate il 2 novembre, in Italia data in cui si ricordano i defunti. Nello stesso giorno dell’anno 676 Dono diventò Papa, nel 1852 Cavour venne eletto primo ministro del Piemonte e nel 1975 lo scrittore Pier Paolo Pasolini fu assassinato all’idroscalo romano di Ostia. Pochi minuti dopo, in un quartiere periferico della capitale dell’Est, nascevano loro. Certo solo coincidenze, pura casualità, ma intanto… Un vicino delle giovani continuava a ricamarci sopra. Riferiva – ma chissà quale era la fonte – di un’infermiera che presente al parto aveva sentito uscire dalla boccucce singolari vagiti, grida d’infante simili a disperate melodie.
“E basta… – il solito capannello del bar -. Glielo abbiamo detto tante volte al Giulio di smetterla con queste fandonie. Quelle due povere creature, da poco 16 anni appena – continuavano le anziane – non si discute, per noi sono angeli!!!”.
A dirla tutta a qualcuno la parola “an-ge-li” non veniva proprio bene. Certe massaie abbassavano la voce nel proferirla, ad alcune veniva una faccia scura, altre ancora confessavano di aver provato un brivido lungo la schiena. A mettere le cose a posto ci pensavano le signore più diplomatiche, che facendo finta di svelare i motivi di quelle inquietudini collettive, in realtà affossavano alla veloce ogni tipo di spiegazione: “E’ vero, a quell’età come si fa a suonare così bene…, certamente viene da dire che è impossibile. Del resto però – concludevano laconiche – qui c’è la mano di Dio. Solo gli angeli possono…”.
Selmo Trocader, il fotografo di via Rodi, si era appassionato a realizzare una serie di ritratti. Gli scatti di Abelia e Abelina – questi erano i nomi delle ragazze – si potevano ammirare durante l’orario del negozio. Trocader aveva fatto una galleria. Solo primi piani dei volti, però. Abelia appariva con sguardo deciso e glaciale; un azzurro così luminoso da far immaginare le giornate del Polo; del viso di Abelina colpivano i capelli folti che descrivere corvini è dir poco, per quanto apparivano pece.
Quel che per tanti stonava come un “peccato” era quel nero che tutte e due indossavano ai concerti, perché per il resto nessuno le aveva mai viste in giro. Un nero e un vuoto perenni che contrastavano con quegli occhi vivi, ma “due ragazze così…”, insomma – sempre il chiacchiericcio del bar; “morte nate nel giorno dei morti” , qualche ragazza non propriamente amica considerava maligna; “un colore adatto per figliole come voi – ragionava zia Gratiela che fin dall’infanzia sì era occupata di loro -. Femmine che non si devono esporre a occhi curiosi, sguardi indiscreti, magari ad occhiate di desiderio”.
Gratiela era una donna di poca cultura ma piena di quel buon senso che a un certo punto della vita può sorgere con la sofferenza, supportato dagli insegnamenti della fede. Immigrata all’età di vent’anni, la lingua italiana non l’aveva mai imparata bene – nell’esprimersi, le proporzioni che usava erano tre parole in milanese tre in romeno e tre nella lingua nazionale adottata -; per la spesa di tutti i giorni invece si faceva capire. Anche lei in scuro come una moglie in lutto, foulard in testa, grembiuli e zoccoli da contadina: sembrava sbucata da un altro secolo. “Devotissima”, dicevano.
Gratiela, Abelia e Abelina: c’era chi ipotizzava che fossero romene di etnia rom, magari per qualche ragione fuggite dal loro Paese, forse da una carovana, da un teatro ambulante, chissà da un circo – i più fantasiosi pensavano -; ipotesi che basavano sull’abilità prematura delle giovani. Tutte supposizioni, quasi sicuramente solo dicerie.
Chi sapeva di più su questa famiglia erano il reggente della parrocchia della zona, don Lino, e alcuni ragazzi più o meno “amici” delle gemelle. Un giorno capitò di fare due chiacchiere con il parroco per scontrarsi contro la sua riservatezza. Quando affrontava l’argomento si limitava ad alzare gli occhi al cielo e ad esclamare: “Le vie del signore…”. Dopo una serie di risposte evasive sul “duo” più conosciuto di quello spicchio di città, il prelato girava i tacchi verso la chiesa confortandosi con un rosario. Un ex compagno di giochi di Abelia durante una festa un po’ per ridere si fece bello millantando avventure piccanti: “Quelle due con le mani ci sanno fare…”. E giù risate tra divertimento e malizia, immaginando chissà che cosa, perché insomma a quell’età – gli anni verdi – “eh – sogghignando il giovane sorrideva con la smorfia un po’ bulletto – non ci facciamo mancare niente, neanche le gemelle…”. Eppoi, finalmente, la Musica.
Il momento più “alto” e atteso nel quartiere, era la serata del concerto. Avvenimento a cui erano invitati in pochi, un po’ sempre gli stessi. Neanche fosse stata una setta. Il recital solitamente cadeva nell’ultimo giorno feriale della settimana e chissà perché la famiglia romena sceglieva i giorni dispari. Venerdì 13 era la data preferita. Il libraio “Bell’Aurora” all’angolo, spesso agli appuntamenti musicali delle fanciulle in odor di rose e zolfo, diede una sua interpretazione: “Il 13, giorno fortunato, si infrange contro le credenze sul venerdì, dalla tradizione considerato un dì nefasto”. Poteva essere un giorno neutro, un angolo inerte, una vista cieca oppure chissà, semplicemente un punto zero. Don Lino da buon napoletano faceva gli scongiuri, perché quel numero “nel cattolicesimo è associato nientemeno che alla sommossa di Lucifero”, sussurrava seminascosto nella sacrestia. Ma la bellezza dell’evento artistico poi cancellava tutto.
“Signori e signore ecco a voi Abelia e Abelina!!!”. Il concerto si svolgeva nella casa della zia Gratiela, precisamente nel salotto, e tutte le volte a presentarlo era madame Isis, una signora francese di una certa età che aveva avuto un passato di concertista, prima del matrimoni e della sua vita di madre nel quartiere.
Tutti gli occhi erano su di loro, sgranati, puntati come obiettivi, divoratori di particolari. Applausi di prammatica e poi la musica. E che musica: scale, arpeggi, accordi monumentali e un’espressività degna di Arturo Benedetti Michelangeli, un virtuosismo contrappuntistico alla Glenn Gould, una dolcezza alla Martha Argerich. Astanti sbigottiti: bocche aperte, nessun rumore molesto, persino le mosche erano così immobili da risultare all’occhio dipinte sui muri.
L’unica cosa che poteva urtare la sensibilità di chi veniva invitato la prima volta era la scarsa luminosità della grande stanza. In occasione dell’esibizione le finestre venivano socchiuse, le lampade portate alla forza di un lumicino e niente nella fitta penombra doveva brillare. Quasi una messa catacombale. Gli unici spiragli dovevano permettere di intravvedere le concertiste davanti allo strumento. Già, insieme: perché le “Lucerna” si esibivano sempre in “coppia”, in “duo”, in “tandem”; era la loro forza, il loro numero… E per il repertorio non c’era che l’imbarazzo della scelta: Mozart, Chopin, Schubert fino a Liszt, insieme a Bach il loro preferito. Peccato…
Carriera in ascesa, viaggi, ricevimenti e chissà quanto successo: la loro vita sarebbe stato tutto questo, se proprio nel bel mezzo di un venerdì 13 i loro cuori non si fossero fermati durante un concerto. Per la gente una cosa inspiegabile, ma non per la scienza medica, che fin da quando erano arrivate in Italia aveva continuato a monitorarle. Per chiarire il mistero basta ricordare l’unica volta che – non si sa se per sbaglio o per la mossa a dir poco indiscreta di qualcuno del pubblico – nel momento degli inchini e delle ovazioni di fine recital – qualcuno accese le luci del salotto, così mettendo la parola fine a quell’alone di mistero. Le Lucerna erano in piedi in bella vista, nel loro splendore.
Eh sì gemelle lo erano, ma decisamente più del necessario. E agli astanti si mostrarono nella maniera in cui la natura le aveva congeniate per stare al mondo. Una attaccata all’altra, non completamente però, ovvero come certe volte accade quando ci sono gravi malformazioni e le bimbe o nascono morte o muoiono venendo alla luce oppure dopo poco tempo in seguito ai gravi scompensi dei loro corpicini. Abelia e Abelina condividevano completamente la spalla e il braccio destro; artisticamente parlando una sorta di “mezza misura” a cui per scrivere la musica nessun compositore poteva aver pensato, eppure…
Nella pratica non erano due pianiste che si cimentavano con concerti a quattro mani, ma avevano la possibilità meccanica di un pianista e mezzo, e per questo le loro partiture venivano ritoccate, se non certe volte riscritte completamente. A questo c’era chi, condividendo il loro segreto con fedeltà, per lungo tempo ci aveva pensato. Ovvero quella madame Isis che coi trascorsi da musicista agli incontri faceva anche da madrina e presentatrice.
“Ma allora come facevano a far sembrare quelle tre braccia, quattro, in certe musiche che suonavano addirittura sei…”, si erano domandate non poche persone dopo la loro scomparsa. Era qualcosa che nessuna scienza al mondo avrebbe mai potuto “monitorare”; la loro tutrice – con le conferme di zia Gratiela – parlava di una rabbia dovuta alla loro grave menomazione, una voglia di riscatto, una stizza a tratti accompagnata da malvagità che, al di là del loro aspetto “angelico” ma non troppo, alla tastiera le trasformava in esseri implacabili, senza emotività superflua e incertezze, soprattutto là dove c’era da mantenere un ritmo sostenuto incalzante, come certi tamburi di guerra dell’Africa nera. “Ecco il perché di quella perfezione per il Mephisto di Franz Liszt”, chiosavano gli ascoltatori più avveduti. Già, però quel brano era stato la loro tomba. Tra l’altro facendo scaturire un piccolo giallo.
Pare che proprio in uno dei passaggi con cui l’autore romantico aveva voluto rappresentare con le note la zoppia del diavolo, le ragazze avevano avuto l’improvviso malore. Una sorta di malefico trabocchetto.
Poi c’era la parte “fisiologica”. In comune oltre al braccio che le faceva apparire come un pezz di dea Kali, “condividevano una parte dell’apparato circolatorio”, avevamo spiegato i medici. Dunque muscoli cardiaci doppi ma un sistema e mezzo di vene e arterie. Una maledizione e al tempo stesso un prodigio. Che alla fine con la danza forsennata di belzebù, scritta dall’abate ungherese Franz, e gli scherzi di una natura bizzarra, alla fine aveva presentato inesorabilmente l’amaro conto. Il suo ultimo walzer, la morte…
In allegato: Mephisto Walzer di Franz Liszt