L’articolo 18? per i privilegiati
Vatti a fidare dell’articolo 18. Quell’articoletto dello Statuto dei lavoratori che obbliga le imprese a riprendersi in casa coloro che sono stati licenziati senza giusta causa. Un totem del nostro sistema produttivo. La bandiera che Berlusconi ha sbandierato in Europa e che dal 1994 è stato un suo pallino. Ma che non è mai riuscito a cancellare. E, per una volta, senza alcun dubbio, non certo per colpa sua.
L’ultimo suo tentativo è franato grazie al presidente della Repubblica, lo stesso a cui oggi l’Europa si affida affinché il medesimo articolo sia modificato. E che di buon grado si fa garante affinché si realizzi una riforma che ieri aveva bocciato. Ironia della sorte. In effetti in questa legislatura, non cento anni fa, Berlusconi e Sacconi il colpo lo avevano messo a segno con la Finanziaria: si erano inventati la cosiddetta clausola compromissoria. La facciamo semplice: datore e lavoratore si accordavano sin dall’assunzione di far decidere le eventuali loro controversie a un arbitro piuttosto che al giudice. L’uovo di colombo, che il Quirinale bocciò inesorabilmente rinviando la legge alle Camere. Ma il punto vero è che la tutela del posto fisso oggi è una tutela per una minoranza. Non si tratta di una posizione ideologica, ma della semplice lettura degli annuari dell’Istat. Vediamo come stanno le cose. In Italia ci sono 4,4 milioni di imprese che danno lavoro a 17,5 milioni di persone. A queste converrebbe aggiungere un’altra impresa, la più grande del Paese e cioè lo Stato, che impiega circa 3,5 milioni di dipendenti. Intoccabili. Ma andiamo sui privati che sono quelli che contano quando si parla di Statuto dei lavoratori e di produttività del Paese. Ebbene di questi 17,5 milioni circa 10 milioni lavorano in aziende che non superano i 15 dipendenti. E ai quali dunque non si applicano le garanzie dell’articolo 18. Restano più di 7 milioni di addetti in imprese medio- grandi. Ma anche in questo caso non tutti sono tutelati. Nel calderone dei 7 milioni ci sono i contratti a tempo determinato ( in Italia ce ne sono più di due milioni), apprendisti, i contratti di formazione lavoro, i cassa integrati, e i dirigenti.
Possiamo ben dire che su circa 23 milioni di persone che oggi in Italia lavorano, sono tutelate efficacemente dall’articolo 18 non più di sei milioni di dipendenti privati. E siamo stati generosi.
In Italia ci sono solo 3.700 (tremilasettecento, a prova di refuso) imprese che hanno più di 250 dipendenti e impiegano circa 3,5 milioni di persone. Di che cosa stiamo parlando allora? Perché l’Italia dovrebbe andare in piazza per protestare contro l’abolizione dell’articolo 18 o di una sua mitigazione? Ma ci rendiamo conto che il settore bancario (solo per citare un comparto che è così odiato dagli indignati) impiega in Italia 380mila persone e che nei prossimi mesi ne dovrà prepensionare o comunque estromettere almeno 30mila? Senza alcun problema di articolo 18 e compagnia cantante: è sufficiente un piano di crisi.
Insomma l’articolo 18 è una grande balla, riguarda una minoranza dei lavoratori italiani (i più garantiti) e viene comunque aggirato dalle grandi imprese quando ne hanno necessità. Viene allora da domandarsi per quale dannato motivo l’Europa, Berlusconi, ora anche Napolitano, ci chiedano di cambiarlo, visto il suo effetto marginale.C’è una duplice ragione.
Quando c’è una soglia punitiva (i 15 lavoratori per lo Statuto, le aliquote a scaglioni per le tasse) le imprese si organizzano per starne sotto.L’efficienza della loro scelta deriva non già da un ragionamento produttivo, ma da opportunismo burocratico. Questo è il motivo, banalmente, per il quale un Paese cresce meno degli altri. Minore competitività vuol dire anche organizzare un’azienda non in funzione delle sue reali esigenze, ma in funzione di quelle pensate dal legislatore.
Cancellare l’articolo 18 avrebbe un altro effetto positivo: spingerebbe le imprese a decidere nuove assunzioni con maggiore leggerezza. Oggi per un’impresa sopra i 15 dipendenti si tratta di un matrimonio: conviene pensarci bene prima di contrarlo. Inserire il divorzio anche nel mondo del lavoro darebbe una svolta alle nostre asfittiche relazioni industriali.