Quando le banche sono criminali
Quella che vi stiamo per servire è una rassegna stampa, ragionata, su quanto abbiamo letto in una sola settimana sui giornali internazionali e sui siti del Senato americano. Ci auguriamo, si fa per dire, che non ci sia un giudice a Taranto che approfondisca questa roba: altrimenti dovremmo spegnere il mondo e sequestrare preventivamente la gran parte dei vostri quattrini depositati in banca, quali corpi del reato.
Il filo rosso di questo breve compendio è rappresentato dall’attitudine criminale delle più importanti istituzioni finanziarie del pianeta. Partiamo alla grande. Con Hsbc. Banca con sede legale a Londra, ma con ramificazioni ovunque: se non è la prima banca del mondo, poco ci manca.
Questi importanti e riveriti signori sono stati pizzicati a riciclare danaro per i narcotrafficanti, per lo più messicani. E non contenti, già che c’erano, avrebbero ripulito anche qualche miliarduccio per i terroristi arabi. Secondo un rapporto di una commissione investigativa del Senato americano, ne hanno combinate di tutti i colori. Con un colpo di bacchetta magica sette miliardi di dollari (avete capito bene, il doppio dell’Imu sulla prima casa) sono stati trasferiti dal Messico agli Stati Uniti. In contanti. Tra il 2007 e il 2008. E provenienti dai cartelli della droga.
In un Paese dove se paghi con un biglietto da cento dollari ti guardano male o ti denunciano, Hsbc portava sacchi e sacchi di dollaroni oltre la frontiera messicana. E noi ci vergogniamo di Chiasso. Hsbc Mexico aveva una filiale alle Cayman senza uffici e personale, ma con 50mila conti e 2,1 miliardi di depositi bancari. 290 milioni di dollari (una quisquilia) in traveller’s cheque sono stati cambiati a favore di una banca giapponese, ma a beneficio di non meglio identificati investitori russi. Che evidentemente stavano facendo il giro del mondo, con un argent de poche in traveller’s cheque. Altrettante transazioni, apparentemente con il solo fine di riciclare danaro sporco, sono state fatte con Paesi in black list terroristica per l’America: dall’Iran alla Corea del Nord.
Martedì scorso i vertici della banca hanno chiuso una mega transazione giudiziaria. Hanno cioè pagato allo Stato americano 1,9 miliardi di dollari per i loro comportamenti. Tutto finito. Il boss della banca ha detto «sono profondamente dispiaciuto». L’Herald Tribune ha scritto: «siamo passati dal too big to fail (troppo grandi per fallire) al too big to jail (troppo grandi per la galera)». Negli ultimi anni Hsbc si è comportata come un’enorme lavatrice di banconote sporche, oggi paga un prezzo per il detersivo.
Non che la cosa sia originale. La ex Wachovia Bank, poi assorbita da Wells Fargo (una delle top five americane), era stata beccata a fare treschette con le casas de cambio messicane e si era beccata nel 2010 una multa da 160 milioni. Il doppio (320 milioni) è costato alla Standard Chartered per la violazione delle norme sulle transazioni bancarie fatte con l’Iran. Per inciso, se gli americani beccano l’Eni (tanto per fare un nome) o Finmeccanica a fare business con gli ayatollah, vengono fucilati senza processo. Altro che multe.
Dall’altra parte dell’Oceano, cioè in Europa, le cose non vanno tanto meglio. A scriverlo vengono quasi i brividi. Una dozzina di banche (ovviamente le più nobili) si sarebbero messe d’accordo per manipolare alcuni fondamentali tassi di interesse (Libor ed Euribor) e sono oggi sotto indagine. In sostanza riducevano di qualche decimale i tassi quando dovevano finanziarsi e li rialzavano al momento di erogare prestiti. Il 90 per cento degli europei ha i propri mutui ancorati a questi riferimenti, e l’idea che una dozzina di trader ogni mattina si mettesse d’accordo per stabilire i tassi a loro comodo fa impressione. Prove? Per ora qualche arresto e i consueti accordi stragiudiziali. Si dice che nei prossimi giorni Ubs sgancerà un miliardo di dollari. Royal Bank of Scotland è sulla stessa strada. Ubs si è già portata a casa una parziale immunità dai ministeri di Giustizia di Svizzera e Canada. E Barclays a luglio ha chiuso un accordo con le autorità, pagando una multa da 450 milioni.
Viene quasi da ridere a commentare i cinque arresti di un paio di giorni fa in Deutsche Bank a Francoforte e l’indagine sui suoi vertici per un banale (si fa per dire) caso di evasione fiscale e di manipolazione tributaria dei certificati verdi. Quelle sono cose che sappiamo fare anche da queste parti: Intesa e Unicredit hanno «transato» con l’Agenzia delle entrate per un totale di mezzo miliardo di euro.
C’è meno da scherzare invece su una recente nomina di Barclays: banca che oltre ad aver taroccato i tassi di interesse, è coinvolta in una lunga serie di indagini che passano dai quattrini ottenuti da un fondo del Qatar a pagamenti sospetti in Arabia Saudita. Ha piazzato alla direzione dei rapporti con le istituzioni governative, Hector Sants. 56 anni, con un passato in Credit Suisse e in Dlj, nel 2001 entra nella serissima (?) Fsa (la Consob inglese) per diventarne amministratore delegato fino a giugno del 2012. Insomma Barclays, non proprio la santa Maria Goretti della City, nomina in un ufficio delicatissimo proprio colui che per anni avrebbe dovuto controllarla, dall’Authority pubblica, senza riuscirci. Ci si augura che questa volta vigili meglio.
La zuppa, come sanno quelli che l’assaggiano da tempo, non ha un piglio moralistico (e se per questo non sbrodola per così tante righe come oggi), ma c’è un limite a tutto.
Huerta de Soto in un bellissimo libro ci ha spiegato come il rapporto tra banche e Stati sia storicamente marcio. Le prime raccolgono i depositi (semplifico Huerta) e invece di custodirli stretti nei forzieri, li prestano ai prìncipi per fare le guerre. È dunque normale che questi ultimi tendano a proteggere, con norme e regole, le istituzioni finanziarie così generose con le corone. Sono scomparsi i prìncipi e sono arrivati burocrati e politici, ma il gioco non cambia. Non fanno più le guerre (o meglio non solo quelle) ma utilizzano sempre i medesimi depositi dei risparmiatori per indebitarsi e fare spesa pubblica in deficit. Un brutto circuito. Ciò che conta, conclude De Soto, è che gli uni si appoggiano agli altri. Le conclusioni dell’economista spagnolo, ma di scuola austriaca, sono tranchant. La cronaca finanziaria di questi tempi sembra però confermare i suoi più pessimistici trattati.
Nel 2007 le grandi banche internazionali hanno creato i presupposti di una crisi prima finanziaria e poi economica. Una prima volta sono state salvate, poiché il loro fallimento avrebbe compromesso la stabilità di tutto il mondo (too big to fail). Oggi nonostante i loro innumerevoli comportamenti criminali sono nuovamente salvate. Ma dalla prigione.
Quale industria può godere di un tale privilegio? Neanche quella della politica è così immune dai suoi errori. Figurarsi dai suoi ladrocini.