Votare con i piedi non vuol dire votare male. Al contrario. Vuol dire comportarsi come Depardieu. L’attore francese ha mollato la Francia e in una rirriverente lettera al suo premier spiega bene perché lo ha fatto.

In buona sostanza l’attore dice: sono venuto dal nulla, mi sono fatto un «mazzo così», ho pagato milioni e milioni di euro in tasse, ma ora il governo di Parigi sta esagerando e io mollo tutto. Me ne vado da un Paese che mi strozza. Rinuncio alle tasse francesi e anche al voto. Con l’aria che tira da noi, il rischio è che molti italiani facciano altrettanto.

Ma c’è un piccolo grande particolare che abbiamo trascurato. Non tutti sono in grado o possono votare con i piedi. Si tratta di una forma legittima e ben costruita di rivolta fiscale che per lo più riguarda i ricchi. Coloro che fanno lavori internazionali, che non hanno problemi di costi di trasporto, che hanno patrimoni ingenti, ma trasferibili con un click si accomodino: gli altri restino. Per la verità una parte dell’impresa italiana sta già scappando. Burocrazie e imposte ci mettono da tempo in una condizione simile a quelle di Depardieu. Basta farsi un giro oltre i confini dell’Italia e si assiste a una vera e propria transumanza di attività produttive. L’attore francese vende la casa di Parigi, le nostre imprese spostano le fabbriche. Ma il risultato non cambia. Chi rimane incastrato è il ceto medio o la piccola impresa legata al territorio, che si prende in faccia tutto il peso fiscale della nostra Bestia statale. La concorrenza non è più su chi fa i prodotti migliori, ma su chi ha la possibilità di farli in luoghi fiscalmente appetibili.

Scappare da un fisco ingiusto innesca una sana concorrenza fiscale tra Paesi. Chi emigra mette tutto sul piatto. Quanto valgono i servizi resi a fronte delle imposte pagate? È questo il bilancio che ogni contribuente inizia a fare. A trattenere gli italiani, oltre a una certa indolenza, c’è il plus Belpaese: per come si mangia, per come si vive, per cosa si vede. Ma tutto ha un prezzo, o meglio una tassa. Superata la quale si rinuncia pure alla pastasciutta al dente.

La tendenza dei governi a esagerare con la leva fiscale non è solo italiana e non è solo contemporanea. A un certo punto della sua vita chiesero al grande fisico inglese Faraday a che cosa servissero i suoi studi sull’elettromagnetismo. Egli confidò di non averne la più pallida idea, ma di essere certo che un giorno la Regina li avrebbe tassati. La storia fiscale altro non è che un’affannosa rincorsa al modo ottimale per nutrire la Bestia statale. Due giorni fa il nostro ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, è stato interpellato sulle previsioni superiori alle attese del gettito derivante dalla patrimoniale sulla casa (l’Imu). Il nostro ha detto: «Se ci fosse un gettito maggiore sarebbe salutare per i conti pubblici». Avete capito bene: salutare. Chi ha sempre fatto parte della macchina statale, chi ha sempre avuto una segretaria o un famiglio per fare la fila alle poste, chi ha sempre avuto un contribuente che gli pagasse il pieno all’auto di servizio, insomma, chiunque sia al nostro servizio, ma finge che sia il contrario, ritiene «salutare» recuperare dai contribuenti il massimo possibile. Tutto ciò è sbagliato.

Chi può permetterselo ha la strada di Depardieu. Chi non può, quella della Grecia. Una brutta, bruttissima alternativa.


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