Acerra e il mantra del No. A tutti i costi
Il vantaggio delle politiche demagogiche, soprattutto in materie economiche, è che la memoria è corta. Ci si dimentica. Il caso più tipico è quello dei vari comitati del No, che imperversano per l’Italia. È facile dire no, più difficile sopportarne i costi. Il problema è che i costi del non fare si pagano domani. È come un grande debito pubblico, che invece di essere alimentato dalla spesa corrente è generato dal non fare. Non vedevamo l’ora di raccontarvi il caso di Acerra e del suo termovalorizzatore: in effetti sono passati quasi dieci anni. Sì, non vedevamo l’ora, perché già a quei tempi sapevamo della buffonata che si stava consumando. Era il 2003 e l’Impregilo (che ha costruito circa 500 impianti simili in giro per il mondo) era pronta per aprire i cantieri per la realizzazione del termovalorizzatore di Acerra. Si tratta di un impianto che si mangia i rifiuti, li digerisce e produce energia elettrica (piuttosto incentivata). Dallo sbruciacchiamento a mille gradi dei rifiuti, si producono anche sostanze inquinanti, che però sono fermate dai filtri predisposti sui camini. In Italia ce ne sono una cinquantina, nel resto dell’Europa poco meno di 500. Ebbene, nella zona più calda per la gestione dei rifiuti, cioè la Campania, spuntarono Comitati del No come funghi. La politica locale fu silente (meglio dire pavida) e ovviamente non mancò il plauso allo stop dell’opera da parte del vescovo locale. Il problema era diventato Impregilo (che pure ne ebbe di questioni da risolvere, compreso un sequestro monstre di 750 milioni di euro, poi cancellato dalla Cassazione) e la costruzione del mostro inquinante. Il cantiere che doveva partire nel 2001 fu bloccato e l’area fu liberata solo nell’agosto del 2004 e solo grazie all’intervento di cinquecento uomini delle forze dell’ordine. Il termovalorizzatore restava un mostro: la sua realizzazione fu ancora interrotta diverse volte. E la soluzione finale fu trovata dall’allora capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, che, complice il governo, dichiarò il sito di interesse strategico nazionale. Insomma, l’area fu militarizzata: per passare dai cancelli era necessario un cartellino di sicurezza. E la gestione fu affidata, attraverso una gara internazionale, alla lombarda A2A.
Un amarcord per dire che finalmente abbiamo i dati ufficiali di questa battaglia tra lo Stato e gli interessi localistici. L’impianto è ormai a pieno regime e nei primi sei mesi di quest’anno ha trattato 314mila tonnellate di rifiuti. E rischia così di chiudere l’anno con un saldo superiore alle 600mila previste. Per darvi una dimensione, il supposto mostro digerisce e tratta il 40 per cento di tutti i rifiuti indifferenziati prodotti dalla Campania. Ne restano ancora 900mila tonnellate: che vanno a finire all’estero (a caro prezzo) o nelle discariche prevalentemente di altre regioni.
Il termovalorizzatore inoltre produce energia elettrica equivalente al fabbisogno energetico di 200mila famiglie, che si accendono lavatrici e lampadine grazie ai rifiuti: si risparmiano così 56mila tonnellate di petrolio. Che, a differenza dei rifiuti, non si è ancora scoperto in Campania. Per inciso, l’azienda fa lavorare circa duecento dipendenti.
Arriviamo finalmente all’inquinamento. L’impianto veniva bloccato perché giudicato (da chi? dal vescovo? dall’opinione pubblica? dai comitati?) tecnologicamente obsoleto. E inquinante. Ebbene, le direttive europee prevedono limiti alle emissioni pari a 100. L’autorizzazione ambientale che fu data ad Acerra abbassava l’asticella a 50. Il termovalorizzatore sta facendo meglio di quanto già prudentemente previsto dall’A.I.A. A questo punto delle due l’una: o il legislatore europeo e quello italiano sono degli inquinatori e lo decidono con atti normativi, o l’impianto di Acerra, rispettando abbondantemente questi limiti, non inquina.
Per finire, e promettiamo di smetterla, gli attuali gestori del termovalorizzatore (cioè l’A2A) stanno facendo molto bene il loro mestiere. E cioè produrre energia elettrica a più non posso. Il che vuol dire che l’opera, così maledetta, porta nelle casse dell’azienda e della Regione (che è proprietaria dell’impianto) circa 150 milioni di euro l’anno (che si dividono in parti quasi uguali) per la vendita dell’energia elettrica.