Cosa c’è da festeggiare
Un Paese in crisi non può permettersi troppi brindisi. Più che euforico rischia di cadere a terra ubriaco. Nel mese di aprile abbiamo lavorato a scartamento ridotto. I giorni son trascorsi con quell’arietta sospesa di chi aspetta la festa. Due settimane fa, era Venerdì di Pasqua. Non propriamente un giorno di festa, ma insomma, tutti lì a prepararsi. Venerdì scorso abbiamo celebrato con la solita tonnellata di retorica il 25 Aprile. E va bene così: guai a toccare la Resistenza. Ieri la sacrosanta festa dei lavoratori con annesso patetico concertone E ci mancherebbe, viste le fatiche di aprile. Tre fine settimana perfetti per fare il ponte: che in effetti è stato fatto. Le cose serie da giovedì 17 aprile, vigilia del Venerdì santo, al 5 maggio, il primo lunedì dopo la festa dei lavoratori, sono state sospese in un limbo. Alcolico. Certo il discorso non vale per tutti e soprattutto in pochi sono riusciti a fare l’en plein, il filotto delle tre settimane. Ma se riflettiamo, è ancora peggio. Come quegli scioperi di un tempo, che si chiamavano a scacchiera, si toglie un tassello per fermare il tutto. L’avvocato può lavorare, ma il giudice c’è? Il cancelliere può esserci, ma il praticante è in ufficio? E così via, paralizzando di fatto il processo produttivo. Che non a caso si chiama processo, perché è fatto di diverse componenti: ne salta una e il prodotto non arriva.
L’istituto centrale di statistica quando pubblica i suoi numeretti su disoccupazione o produzione industriale in un determinato lasso di tempo, li «destagionalizza»: e cioè calcola il numero esatto dei giorni lavorativi per fare i paragoni corretti con altri periodi dell’anno. Ecco, l’Italia dovrebbe «destagionalizzare» la sua produzione di ricchezza rispetto agli altri Paesi del mondo: da noi le ricorrenze sono numerose e, soprattutto, generano un effetto scia (o, se preferite, un effetto pigrizia, indolenza) prima e dopo difficilmente calcolabile dagli economisti.
Nel passato, sia a destra sia a sinistra, si è pensato di accorpare alcune feste, spostarle la domenica e cose del genere. Nessuno ce l’ha mai fatta. Questo è il Paese dei campanili e delle pastarelle. Quanto ci piace sentire le stesse cose dai palchi e nelle piazze da cinquant’anni a questa parte. Forse sarebbe ora di smetterla. Non è vero che gli italiani non siano lavoratori (per quelli che ancora possono farlo). Al contrario. Ma lo facciamo in condizioni svantaggiate rispetto ai nostri concorrenti. Con le tentazioni festive in mezzo alla settimana o, peggio ancora, come sta avvenendo nel 2014, a ridosso del week end.