Ma cosa abbiamo nel piatto? I dubbi a tavola.
Mercoledì 4 settembre 2013 – Santa Rosalia – Scilla
Sono rimasto seduto alla seggiola del balcone del ristorante per ore. Non riuscivo a staccare gli occhi dallo Stretto. Amo questo mare che non sa d’infinito. Che sembra una parte della casa, tanto è circondato da terre conosciute. La Costa Viola, la punta della Sicilia, le terre delle Eolie e Capo Vaticano: praticamente una cornice per uno specchio d’acqua che sa di lago. E non spaventa. Ho tenuto in bocca, senza ucciderlo con l’inutile caffè e ammazzacaffè, il gusto del mare che mi ha lasciato la cena. E non solo del mare. Il finocchio selvatico raccolto sulla costa, le olivette della Piana aromatizzate all’origano e buccia d’arancia, i pomodori essiccati al sole e “conzati” con capperi e acciughe, il fico d’India appena colto. E il pesce appena pescato. Già, appena pescato! Qui, significa “di oggi”. Perché, fosse di ieri, non sarebbe più buono. Poveri, ma viziati, i calabresi. Abituati malamente dalla distribuzione “alla vecchia maniera”. Anche nei supermercati, l’angolo del pesce è in mano alle famiglie di pescatori. Quasi in tutti. Pochi acquistano il surgelato. Soprattutto se si accorgono che la scritta sulla confezione è in ideogrammi. Nei piccoli centri della provincia italiana, del resto, si tende a mantenere la tradizione a tavola. E la tradizione impone ingredienti base raccolti in loco. O quasi. E’ nelle grandi città che il piatto a tavola riserva le peggiori sorprese. La grande distribuzione si deve fidare dei timbri. E i timbri, spesso incomprensibili, nascondono tristi verità.
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Ma che devi fare? Non mangi più nulla? Elimini le uova? Il pollo? La carne?
Elimini il pane, il latte, le verdure? E cosa resta nel piatto? Quando sono a Roma, ora che passo molto più tempo in Calabria, sento l’odore del cibo da cuocere e non riconosco più nulla. Il petto di pollo non sa di pollo, le uova appena liberate dal guscio mi mostrano un tuorlo giallo pallidino e acquosino e non rosso e consistente, il pane si indurisce o si “ingomma” a pochissime ore dall’acquisto, la bistecca si riduce sul fuoco e sa di pesce. Il pesce ha l’occhio spento da settimane e l’odore delle alghe andate a male. No, scusate, ma che roba è? Che roba è questo pomodoro pelato color rosso di cadmio, finto da morire? E le carote tutte uguali? E le spigole dello stesso peso? E le arance che sanno di varechina? E la lattuga senza sapore? Eppure, costano! Eccome, se costano. Troppo, per giunta.
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Sono mesi che consiglio ai miei nipoti di vendere tutto e tornare a vivere in Calabria. Qui tanta bontà è a Km zero. Devi proprio volerlo tu, il cibo confezionato o importato. Ma se sei attento e oculato, e se ci sai fare, torni indietro di cento anni. Ed in meglio. Mia madre ed io, almeno una volta a settimana, non ci facciamo mancare la ricotta appena fatta. Ancora calda e morbida come velluto, me la gusto spalmata su fette di pane bianco cotto nel forno a legna. Per la carne rossa, molto poca, in verità, abbiamo trovato il macellaio che provvede alla macellazione diretta di pochi animali conosciuti e non gradisce farsi arrivare i “tagli” già confezionati.
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Le verdure si acquistano dai contadini. I polli sono allevati liberi in campagna. Il pesce, ripeto, è pescato la notte precedente. In paese hai quasi la sensazione che vivrai in eterno. Poi, non è così, lo so. Ma, almeno, quel tempo che vivi, lo vivi meglio. Ad ogni pranzo, ad ogni cena, non è raro sentire un “Ma che bontà!” al posto del cittadino “Non sa di nulla!” Ecco, sia anche solo per la soddisfazione del palato, già mi sta bene aver scelto di allontanarmi dai veleni della città. E, in ogni caso, un passo indietro, l’Umanità dovrà farlo. Prima o poi.
… fra me e me. Nel rispettoso ricordo di milioni di animali trattati barbaramente.