Martedì 28 Aprile 2015 – Senza santi in paradiso – Nella casa Paterna

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Conobbi Romano Mussolini in Calabria, tantissimi anni fa, durante un suo concerto in un locale della mio paese. Jazzista meraviglioso, incantò il pubblico seduto e gli avventori occasionali. Sia per la bravura, che per l’umanità. Quando smise di suonare, e ce ne volle considerati i numerosi bis concessi, venne a sedersi al tavolo che occupavo con una piccola comitiva di amici. 

Parlammo a lungo delle note, dei musicisti, della pittura, dei viaggi. Del Duce, poco. Diventava schivo, se si nominava la Famiglia. Capimmo che lo era per una sorta di timidezza innata. Lo si notava da mille cose. Dallo sguardo, soprattutto. Aveva gli occhi dolci di Sua Madre, Donna Rachele, piuttosto che quelli penetranti e tosti di Suo Padre. Ma lo fece anche per smorzare gli ardenti spiriti di un gruppo di giovanissimi, che, a quell’età avrebbero potuto fare pessimo uso della familiarità col figlio di Benito Mussolini. Lui lo sapeva e ci parlò d’arte e di vita.

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Mi rimase impresso nella memoria quell’incontro. Perché poche volte mi capitò, in seguito, di incontrare così tanta eleganza in un uomo.

Lo incontrai ancora, tanti anni dopo, per molte volte. Veniva spesso a seguire in diretta, in studio, il programma televisivo di cui ero autore. Gli piaceva tanto, e, dunque, dimenticando chi fosse, veniva a sedere in mezzo al pubblico di giovanissimi universitari e pensionati ministeriali. Semplicemente. Senza farsi quasi notare. Mai in prima fila, per non mettere a disagio la conduttrice, che, pure, lo salutava ad ogni puntata. La produzione non approvava, ma sopportava. Anzi, un giorno, vista la mia familiarità, mi chiese di convincerlo a desistere dal presenziare. Non glielo dissi mai. Avevo troppo piacere di vederlo e scambiare quattro chiacchiere con Lui.

Durante quegli incontri, parlammo anche del Suo Papà. Me ne parlò con affetto filiale, ma, soprattutto, con devozione. E rispetto. Non riuscì a nascondere il dolore per la sua fine e, soprattutto, per le offese ricevute dopo la morte.

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Eh, sì! Perché è vero, Romano Caro, che lo scempio di piazzale loreto resterà una delle più gravi vergogne della storia d’Italia. Una sorta di monumento all’odio che nessuno mai ebbe, ed ha, il coraggio di biasimare. Tranne, chiaramente, chi di quel giorno e di quel circo infernale ne ha fatto un dolore personale. Appunto.

La vera frattura nel popolo italiano cominciò proprio da lì. Perché, se prima di quella maledetta fiera dell’orrore gli italiani erano divisi dalla differente ideologia politica, da quel momento in poi la pietà decise le sorti. Chi la provò, pianse e pregò. Chi non ne sentì la divina necessità, compì sacrilegio. Perché un corpo morto è cosa sacra. Chiunque lo abbia indossato.

E questo vale per i milioni di morti di ogni guerra e persecuzione. Nessuno escluso. Dunque, anche per Benito Mussolini.

Ben

Fra me e me, ricordando il Padre di un Amico. E l’Amico.

 

 

 

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