Giovedì 29 ottobre 2015 – Santa Ermelinda – a casa, a Taurianova

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Avevo cinque anni e passavo giornate intere in campagna con mio zio Filippo e mia zia Rosina. Gli zii del cuore. Spesso scappavo al controllo dei miei genitori e delle mie sorelle e saltavo sulla mia biciclettina per raggiungerli alle “Livàre”, la loro meravigliosa tenuta di antichi ulivi secolari alti quanto palazzi a quattro piani e con tronchi dentro i quali, spesso, i miei cugini ed io ci rifugiavamo, giocando a nascondino. In quella campagna c’era, e c’è ancora, una casetta colonica con, a fianco, il forno, il pollaio, un granaio e una zimba (il porcile). Ecco: era proprio quest’ultimo il mio rifugio. Perché lì viveva, ogni anno e per un anno, il mio amico più caro. Il maiale di famiglia.

Spesso si chiamava Micu. Era il nome comune del porco. Marco era quello del gatto. Bobbi del cane. Cicciu del somaro. Si chiamavano tutti così.

I Micu che mi ricordo sono almeno tre. Tutti Neri di Calabria. Perché il “porcu iancu” o “porcu mericànu” è arrivato da queste parti quando io andavo già alle scuole elementari.

Ogni Micu era trattato come e meglio di uno di famiglia. A pranzo e cena riceveva mele, patate, farinaccio, crusca, resti della tavola. Anche foglie e scarti delle verdure da cuocere. A volte, ghiande. Spesso riceveva la visita di qualche vicino e zio Filippo ne vantava la crescita e la qualità. Zia Rosina era più schiva e scarna di complimenti nei suoi confronti, ma lo accudiva come un ospite di riguardo.

E, dunque, io lo consideravo come un amico. Mi ci affezionavo e gli andavo a parlare. Gli davo del tu e gli passavo delle mele limoncelle di nascosto. Di tanto in tanto ero io che gli pulivo  “u iazzu“. Mi sembrava di regalargli un conforto più “umano”. Lo sentivo fratello. Capitava, a volte, che Micu rivelava essere femmina. Si accoppiava, allora,  con un verro che arrivava legato ad una corda da qualche campagna vicina e scortato da tre o quattro contadini. Una sorta di processione dionisiaca. Noi tutti assistevamo alla monta. Senza falsi pudori. La campagna non li conosce.

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La troia – così si chiamava – sgravava dopo qualche mese e noi la aiutavamo a farlo, pulendo i neonati con la paglia e attaccandoli alla “minna” che restava la stessa per tutto l’allattamento.

I giorni passavano, però, velocemente. Troppo velocemente per l’ospite… Troppo velocemente anche per me, suo amico, che sognavo a occhi aperti, ogni giorno, di liberarlo.

Dopo la festa dell’Immacolata, ogni anno, si preparavano, invece, gli strumenti per il sacrificio. A partire dal coltello per lo scannamento. Sempre lo stesso. Lama stretta, leggermente curva, di media lunghezza. Affilatissimo. La vasca per raccogliere il sangue, la tavola per poggiare l’animale “dopo”, le corde. E l’animo. Già! L’animo necessario per superare il dispiacere del distacco, trovare il coraggio per infilare la lama, sentire lo strazio delle urla del moribondo (o della moribonda) e non morire con esso.

Dio mio, quanto piangevo io… Lacrime a bere!!! Eppure

Già dopo qualche ora, come da legge della terra, ero seduto a tavola a mangiare sanguinaccio e fegato arrosto. Così voleva la vita e così era. Di quell’animale non si buttava nulla, salvo qualche osso. Anche le setole si tenevano. Non ho mai capito cosa si facesse, ma so che venivano raccolte. La campagna è parsimoniosa e ingegnosa.

Ho imparato lì, sotto gli ulivi e gli aranci, fra i cavoli e le lattughe, in compagnia di galline e gatti, maiali e vitelli che bisogna ringraziare Dio per ogni bene che concede. Mangio anche le arance con la buccia e non lascio mai nulla nel piatto.

Amo le verdure e non disdegno la carne. Non ne abuso, ma la mangio. E, se devo farlo, spesso macello personalmente l’animale che consumerò. Mi fido della Natura e so che mai mi metterebbe a rischio. Penso, invece, che spetti a me saper dosare intelligentemente quantità e qualità.

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Basta, suppongo, evitare cibi “finti”, preconfezionati, lavorati artificialmente, ricostituiti, ricomposti, colorati, plastificati, e lascio aperto l’elenco…

Mi girano i maroni a leggere gli editti di queste ore sul consumo “mortale” della carne. Trovo che sia l’ennesimo attacco alla nostra storia e alla nostra tradizione. Alla nostra identità. Per fare spazio, probabilmente, ad altre storie, altre tradizioni, altre identità. La guerra continua, dunque. Subdola e puttana.

Tutto sta a non fargliela vincere. Io, di mio, costruirò una nuova zimba in campagna e alleverò un Micu all’anno, che trasformerò in tutto quello che non piace all’OMS schiava di chissà chi.

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Le loro cavallette, api, formiche, i loro bacarozzi, scorpioni, calabroni, vermi della canna se li mangino loro avvolti nel mio fraterno vaffanculo.

Fra me e me, con pane e mortazza qui ad aspettarmi.

 

 

 

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