Sabato 27 febbraio 2016 – San Leandro – a casa, a Taurianova

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Certo, e come no, onore alla zucchina romana e alla cicoria pugliese. Medaglia d’oro ai broccoletti calabresi e ai carciofi siciliani. Viva i cardi del Piemonte e il radicchio trevigiano. Ma… Il Parmigiano? Il Pecorino Crotonese? Il Puzzone? La Fontina, il Caciocavallo Molisano? E i mille e mille altri nobilissimi formaggi italiani? E quel miele di zagara che arriva dalla mia Piana? O quello, amaro, di corbezzolo, di ciceroniana memoria, che dalla Sardegna sbarca sul continente?

E le freschissime uova delle galline di mia nonna Concetta, di zia Mela e zia Rosina, che io consumavo già da bambino a fianco al corbello dentro al quale venivano deposte?

E quel cielo di salumi che mi stava sopra la testa, quando andavo a trovare i nonni in campagna? Salsicce, soppressate, lardi, pancette e capocolli… Un affresco dal profumo inebriante che sembrava scendere direttamente dal Paradiso in Terra come premio per la mia fede di bambino. Avevo gli occhi che brillavano e mi partiva una risata argentina quando papà ne staccava un filo per mangiarlo insieme a me. E quel filo erano almeno quattro salsicce mezze secche e mezze no…

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Avvolto in un caldo cappottino, riscaldato dal maglione che mi faceva mamma coi ferri e la lana, mi sentivo un principe, orgoglioso dei miei guanti e della mia sciarpa multicolori.

Oggi come allora, pur privo della favola del passato, godo della dolcezza del miele d’agrumi che non deve mancare mai sulla mia tavola. Di quel senso materno che mi avvolge ad ogni boccone di buon formaggio che riesco a mandare giù, nonostante lo spauracchio di trigliceridi e colesterolo. Godo, sì godo, della compagnia cameratesca di un tagliere di salumi e di un buon bicchiere di rosso, magari un Gaglioppo calabrese…

Come potrei mai diventare vegano e maritarmi con la tristezza della rinuncia ad un maglione di pura lana, ad una bistecca appena scottata sulla brace, ad un’insalata di mare o ad un cartoccio di linguine allo scoglio, ad uno zabaione col marsala, a quella cintura di pelle che mamma, che prega Dio e non sa di vegetarismi, mi regalò per il compleanno?

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E in nome di cosa, poi, della più grande ipocrisia mai immaginata e praticata? Eh, sì! I vegani non si cibano di animali, loro derivati e prodotti del loro lavoro. Né degli animali di terra, né di quelli di acqua. E non si vogliono contaminare con nulla che riporti alla fatica, allo sforzo, all’impegno, all’azione di alcun essere che non sia vegetale. Infatti, non si coprono neanche con la lana o la seta, e, di eccesso in eccesso, arrivano alla bugia.

Glielo spiegate Voi, per favore, ché io con loro non ci parlo, che le piante nascono dalla terra e che la terra è concimata da tonnellate di merda di miliardi di animali di ogni dimensione? E che, dunque, se non si possono consumare uova, latte, bava, e derivati, nemmeno la santa cacca, che viene assorbita come quasi unico cibo dalle radici, dovrebbe essere utilizzata. Perché anche quella è frutto di organismo animale, eccome! E, dunque, come la mettiamo? I pazzi e gli stolti siamo ancora noi? O coloro che ingoiano fogliame e fanno finta che non ci scorra sangue dentro?

Capisco tutto, anche la decisione di non voler partecipare allo scempio del consumo compulsivo di carne di animali allevati in batteria e derivati, ma a tutto c’è un limite.

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E, soprattutto, mi rompe le balle questo snobismo razzista di certi integralisti della verzura, che aggrediscono in malo modo e senza pietà chiunque scorgano con un panino alla mortazza in mano, e, poi, fingono di ignorare che, sulla Terra, ogni foglia verde è figlia di una goccia di sangue.

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Fra me e me. Invaso di latte e miele in ogni cellula, coperto di lana e seta, mentre mangio un panino con il salame fatto da me. In pace con Dio.

 

 

 

 

 

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