Prodi come Bartali: Pd, è tutto da rifare
[photopress:pRODI_PROFILO.jpg,thumb,alignleft] Il Professore ama la bicicletta e così, forse ricordando il buon Ginettaccio Bartali, ha deciso di fare uno “strappo”, di dare uno scossone al gruppone del Pd dove tutti vogliono tirare la volata e alla fine nessuno pedala con il risultato che è sotto gli occhi di tutti: veri perdenti di successo. Il paragone ciclistico serve a semplificare un pò le cose, perché l’uscita del “padre nobile” e due volte ex premier, non è stata di poco conto.
Prodi, in sintesi, ha messo nero nero su bianco in un’articolessa pubblicata dal Messaggero, che il partito così non va. “Risultato inferiore alle attese”, ha scritto a proposito delle elezioni regionali, mettendo sotto accusa il partito “fortemente autoreferenziale, con rapporti troppo deboli con il territorio e con i problemi quotidiani degli italiani, messi in secondo piano dai ristretto obbiettivi dei dirigenti e delle correnti”. Conclusione: il partito è tutto da rifare, va rifondato “su base strettamente regionale” e federativa. E devono essere i segretari regionali a eleggere quello nazionale. Senza primarie. Ovvio che per farlo andrebbe spazzata via la nomenclatura degli organismi dirigenti “inefficaci” con le loro “infinite code di benemeriti e aventi diritto” ex segretari ed ex premier inclusi…
Insomma, la “casta” piddina andrebbe cancellata. Pena l’estinzione politica, già fortemente compromessa a tutto vantaggio di Pdl e Lega. Analisi impietosa, quella di Prodi. Alla quale risponde con una lettera al Messaggero, Pier Luigi Bersani (che il Professore dice di non aver chiamato in causa) in cui afferma di essere d’accordo sullo schema del Pd federale e conclude: “Una leadership forte nella dimensione regionale non potrà emergere davvero senza meccanismi che partano dalla dimensione locale. D’altra parte la partecipazione delle leadership regionali ai luoghi di direzione centrale dovrà legittimare una possibilità d’intervento dal centro, possibilità che oggi è troppo debole”. Sembra che il “modello Lega” si faccia strada anche a sinistra. La forma partito ricalca la futura forma Stato, con poteri (attenzione) più forti per il segretario nazionale (in forma semi-presidenzialista o presidenzialista, alla francese, alla tedesca o anglosassone? mi chiedo).
Comprensibile il “gelo” della “casta” piddina (da Veltroni a D’Alema ma anche da Franceschini a Fioroni). Si frena, si stempera, si minimizza, si parla di un processo da diluire, chiarire meglio (come chiede il veltroniano Tonini) e digerire in un infinito “dibattitismo interno”. Fioroni attacca: “Siamo agli Stati Uniti d’Italia mentre ci accingiamo a celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, e noi ci siamo sempre presentati come il partito dell’unità… Con questa proposta si evoca una struttura che non è neanche federale, bensì confederale”.
Ma Prodi ha messo il dito nella piaga, c’è un Pd “romano” e c’è un Pd che sul territorio ha sempre meno presa, soprattutto ma non solo, al Nord che non si sente rappresentato da quello “romano”. Non è un caso che il sindaco di Torino Chiamparino si sia schierato subito con il Professore: “Cominciamo a liberarci dai caminetti…”. E il segretario piddino delle Marche, Ucchielli rimarca: serve un partito “delle città, delle province, delle regioni. Una governance vera, non fatta di notabili, ma di gente che vive e lavora sul territorio”. Altro che “tema secondario”, come sostiene Franceschini.
Ma dopotutto è più facile dedicarsi all’anti-berlusconismo o demonizzare la Lega che ragionare sui motivi veri di tante sconfitte, la politica fatta nei salotti “alti”, per molti a sinistra, è molto più nobile da praticare di quella da “marciapiede”, fra la gente.