Se c’è un fenomeno che non conosce crisi nel Belpaese, questo è sicuramente il progressivo allontanamento dell’elettorato dal mondo della politica. Dal voto in Emilia Romagna passando a quello su scala nazionale, il partito dell’astensionismo è abbondantemente primo in quasi ogni tornata. Le cause sono diverse, ma la principale è certamente la difficoltà di identificazione con una classe politica percepita come distante, distante dai bisogni più elementari, dai concetti di etica e moralità, lontana dai più semplici canoni e tramiti di rappresentanza che dovrebbero unirla al proprio elettorato. Una distanza che, in tempi pure recenti, è stata interpretata anche come geografica.

La nascita di un partito come la Lega Nord è lì a dimostrarcelo. La sua ascesa elettorale all’inizio degli anni Novanta fu estremamente facilitata dallo sdegno verso una classe politica corrotta, ormai racchiusa in una dimensione altra, fatta di affari e affarucci, clientelismi ma soprattutto di lontananza da una gestione amministrativa coerente ed efficace. L’ascesa della Lega fu un sussulto del Nord Italia nei confronti di una capitale percepita come casa degli sprechi e delle ruberie ai danni del paese reale, di quel “nord che produce” e delle sue regioni più virtuose. Tra la facile retorica antileghista dei salotti buoni de sinistra e l’ingiustificata e pressoché totale mancanza di ascolto delle ragioni che l’hanno portata al successo, in quegli anni c’erano, all’interno del Carroccio, indirizzi politici e richieste dal basso che invece meritavano attenzione e che la meritano tutt’ora, visto anche che la situazione, da Mani Pulite ad oggi, non pare effettivamente essere stata stravolta.
Tra le soluzioni più radicali espresse dalla Lega troviamo la questione padana, la secessione, la cesura netta con lo stato. Una secessione probabilmente chimerica, ma che nella sua formulazione ideale diveniva anche un metodo di riappropriazione di spazi, che fossero economici o politici. Alla sua base aveva la volontà di un taglio netto con anni di malgoverno e lontananza, ma pure il tentativo di un governo locale più vicino al cittadino, alla tradizione del luogo, alla sua lingua, alla sua cultura. In un certo senso non fu antipolitica, fu anzi una ricerca di politica vera, della sua radice più profonda e cittadina, una riscoperta della Polis e della sua dimensione.

Tra le difficoltà, gli insuccessi, le esagerazioni e le storture di partito, un messaggio rimane e può, anzi deve venire rilanciato, ovvero quello del federalismo. In un momento in cui l’astensione galoppa, l’antipolitica soffia e ancora una volta gli scandali coinvolgono non solo la capitale d’Italia, ma il sistema partitico che ne regge l’infrastruttura, riappropriarsi della politica dal basso, dal piccolo e dal locale può essere la soluzione migliore. Può esserlo sia per quelle regioni che già hanno mostrato, tramite i propri meriti, di potersi autogestire, sia per quelle regioni che fanno più fatica e che da decenni di centralismo hanno solo guadagnato un ulteriore affossamento delle proprie risorse. Il momento sarebbe ottimo, perché ai malumori dell’antipolitica, del rifiuto, si deve rispondere con una amministrazione diversa e più trasparente. Quando c’è malessere verso lo stato e difficoltà ad identificarsi con esso, la soluzione migliore è quella di ricominciare dal basso, di comprendere che la nazione è un insieme di parti comunicanti, un insieme pure geografico e politico di comuni, provincie, regioni. Potrebbe così iniziare una proficua bonifica dai luoghi più prossimi, partendo da ciò che si sente come più vicino. Un lavoro coraggioso che andava fatto molto tempo fa, probabilmente dalla nascita del paese, ma che per un motivo o per l’altro è sempre stato rimandato.

Anche oggi si legge che un partito come Fratelli d’Italia, per bocca della sua segretaria, parla di regionalismo fallito, di necessità di centralismo. Non ci sarebbe errore più grave, e non ci sarebbe maggior regalo all’astensionismo e alla progressiva de-identificazione con la nazione. L’Italia è un paese ricco di tradizioni locali, di lingue, di storia, pure di sapori e feste. Il centralismo spinto non è assolutamente la soluzione per rinfocolare uno spirito di appartenenza serio, rischierebbe invece di diventarne la morte, l’appiattimento più totale e insensato. L’appartenenza si rinfocola invece quando il cittadino capisce di far parte della nazione con tutto il proprio background culturale, con la propria appartenenza e con la storia dei luoghi in cui è nato e cresciuto. Questo è stato un po’ il limite di una tradizione di destra su scala nazionale, ovvero la credenza che centralismo significhi patriottismo e sentimento nazionale. Purtroppo non è così, in Italia è anzi l’esatto contrario. Non si rinfocolerà mai un serio spirito nazionale senza un governo di tipo decentralizzato, senza ottiche locali. E pure la Lega Nord di oggi, impegnata nella ricerca di un nazionalismo sempre più coriaceo, dovrebbe tenere bene a mente la (sua) lezione di federalismo e decentramento amministrativo. Oggi più che mai bisogna parlarne, perché per la furia di voler tenere attaccata una nazione con la colla del centralismo più forte, si rischia seriamente di aumentare un processo inverso dagli esiti potenzialmente catastrofici.

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