Salvini pare essere diventato, negli ultimi mesi, il parafulmine e il responsabile principale di ogni disumanità internazionale. La ciclica crisi delle sinistre liberal in Occidente, germinata dalla Brexit e da Trump e arrivata fino ai tempi più recenti, non sembra ancora capace di spingersi oltre alla ricerca di capri espiatori. Un comportamento che tradisce un ritardo politico decennale, incapace di spiegare il presente e di offrire valide chiavi interpretative.

Si accusa il leader leghista e il suo pensiero di semplicismo, pure di malvagità. In realtà il cambio di paradigma in materia di accoglienza sposato da buona parte degli italiani e dal governo giallo-verde è tutto fuorché malvagio o semplicistico. L’idea che il futuro degli africani non possa consistere in una traslazione di popoli dal Continente Nero all’Europa è un’idea di semplice buonsenso, specialmente se affiancata da politiche di sviluppo in loco.

E’ una idea positiva quella di cominciare, finalmente, a sviluppare in Europa e anche in Africa la riscoperta degli stati nazionali, dei loro popoli e delle loro borghesie produttive, con una cultura politica fatta di consapevolezza, identità ed appartenenza. Una idea che può essere messa in pratica e che va messa in pratica.

Il cambio di paradigma, che poi è semplicemente la grande presa di coscienza politica di chi si oppone alla globalizzazione, sta tutto lì. Riscoperta degli Stati, delle identità e dei confini contro l’anarchia imperativa per tutti, dove a trionfare è inevitabilmente il più forte. La chiusura dei porti è certamente di per sé insufficiente se non accompagnata da politiche di sviluppo in Africa, ma viene da chiedersi quali siano le alternative a questo pur complesso percorso.

Una alternativa sarebbe quella di risolvere i problemi dell’Africa semplicemente importandone la popolazione nel nostro continente? Sarebbe quella, così facendo, di impoverirne ancor più le nazioni e di disinnescare qualsiasi ipotesi di riappropriazione, di emancipazione nazionale, lasciando in terra africana solamente qualche anziano e risorse da far sfruttare ad altri?

Il tutto diventa ancor più deleterio se prendiamo in esame la situazione che ai migranti viene offerta in un paese come il nostro, che vive un esodo dissanguante di giovani verso l’estero, una disoccupazione giovanile ingiustificabile e l’enorme difficoltà a creare e trovare lavoro per milioni e milioni di persone. Non certo quindi una economia florida, con un mercato interno in espansione o eccedenza di posti di lavoro. Al contrario, una situazione stagnante da decenni che rende difficile a qualsiasi cittadino italiano la possibilità di emanciparsi a casa propria.

Quale può essere il ragionamento che spinge moltissimi intellettuali, guru, accademici, esponenti di spicco della società civile a continuare a spingere per una accoglienza senza criterio che finisce con l’impoverire l’Africa e con lo spostare il problema del lavoro in altre nazioni?

E’ davvero così difficile non voltarsi dall’altra parte e tentare di comprendere quale sia il destino al quale vanno incontro migliaia e migliaia di immigrati in Europa, spesso e volentieri abbandonati a loro stessi, ghettizzati, sfruttati in un continente che da decenni vive già una propria crisi esistenziale che lo porta a non fare più figli, a vivere nella precarietà, ad esprimere anche elettoralmente sempre più malcontento?

Perché al posto di promuovere una cultura unica fatta di smarrimento, rinuncia all’identità e fuga non è possibile promuovere un mondo multipolare, in cui ogni nazione abbia una propria dignità e il diritto di vedere le proprie giovani generazioni crescere a casa, per prendere un domani i posti dei loro padri alla guida dei loro paesi?

Perché l’intera futura classe dirigente di moltissime nazioni, formata nelle università, deve arrendersi a cercare il proprio futuro altrove, in competizione con quelle di altri popoli, che al posto di trovare terreno fertile nei suoi territori ha trovato solo il vuoto e una propaganda che spingeva ad andarsene, a fare i bagagli perché “oggi il mondo va così” e il futuro non sta mai vicino casa ma sempre in qualche città mercantile, in qualche metropoli da decine di milioni di abitanti, in qualche mecca del progresso per conto terzi?

Perché il primo ed inoppugnabile diritto non può essere quello di non dover emigrare, e non, al contrario, quello di doverlo fare? Perché un porto aperto dovrebbe significare più umanità, se questa politica spinge poi centinaia di migliaia di individui a consegnarsi ad un esodo malsicuro sia nei mezzi sia nelle prospettive?

Serve revisionare le politiche di sfruttamento delle grandi compagnie occidentali in Africa? Serve criticare l’imperialismo che colpisce quelle terre? Certamente sì, perché spesso rappresenta la causa degli esodi. Ma la cecità e il silenzio in tal senso sono equamente condivisi con chi continua a tessere le lodi dell’immigrazione senza sosta, che non fa che permettere a chi oggi promuove politiche di spoliazione di continuare a farlo, senza qualcuno che a casa sua, nel tempo, glielo faccia notare. Succede anche grazie a chi, a cadenza ciclica, esalta le esportazioni di democrazia dei vari Macron, Obama e Clinton, imponendo poi ai popoli, africani ed europei, di pagarne il prezzo.

Di certo la cultura populista, come viene sprezzantemente definita, ad oggi rappresenta solo l’inizio di un simile percorso, ma quantomeno la strada intrapresa torna a parlare di confini e di sviluppo in loco. Quantomeno si spezza la narrazione, dal forte sapore di laissez faire esistenziale, che le migrazioni bibliche e il travaso di intere popolazioni sia inevitabile o addirittura apprezzabile. La sua alternativa, al contrario, è ferma lì, e spesso scambia la dignità dei popoli e delle nazioni con il loro diritto a vedersi vittime di esodi incentivati. La dignità delle loro culture con la capacità di adeguarsi al produci-consuma-crepa di matrice globalista, che già è vieppiù malsopportato dagli stessi occidentali.

Se l’unica soluzione offerta al posto della chiusura dei porti e dell’aiutiamoli a casa loro, insomma, è quella dell’indifferenza, è quella dell’incapacità alla rivendicazione e alla ricostruzione, è quella del travaso dei popoli, dell’anarchia globale e della spoliazione dell’Africa, viene da dire che la disumanità non sta certo tra le fila dei salviniani o dei pentastellati.

Qualche decennio fa le sinistre scendevano in piazza al grido di “un altro mondo è possibile”. Ad oggi pare si siano chiuse in salotti sempre più distanti a dirci che il mondo è questo e non si può fare nulla per cambiarlo. Sta anche in questo la grande crisi delle sinistre in Occidente.

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