Mario Furlan, motivatore e life coach

Mario Furlan, motivatore e life coach

Il Coronavirus, lo sappiamo tutti, non è una semplice influenza. Ma non è nemmeno Ebola. Quindi certe reazioni isteriche degli ultimi 10 giorni – l’assalto ai supermercati, il terrore ad uscire di casa, la paura di avere a che fare con lombardi, veneti ed emiliani, manco fossero tutti untori – paiono decisamente fuori luogo.
Perché questa psicosi? Perché la nostra mente è programmata, prima di tutto, per farci sopravvivere. E per proteggerci dai pericoli, veri o presunti che siano. Quando siamo agitati, impauriti, allarmati, si attiva il cervello ancestrale. Che non sa ragionare. Non sa distinguere. Non sa valutare. Non capisce quali misure sono utili e quali sono eccessive. Il cervello rettiliano sa solo provare paura. E farci scappare. Dall’eventuale pericolo. E anche dal buon senso.
Noi che viviamo ai tempi del Coronavirus non siamo, dal punto di vista emotivo, diversi dai nostri antenati che vivevano al tempo della peste manzoniana, nel Seicento. Vogliamo salvare la pelle. E vogliamo anche trovare un capro espiatorio. Se c’è una minaccia, ci dev’essere anche chi ci minaccia. Non un virus, contro il quale non possiamo scagliare la nostra ira; ma delle persone, in carne e ossa. Ecco perché ci arrivano su Whattsapp e via mail tante ipotesi fantasiose sulla causa del virus: chi giura che sia stato creato in laboratorio da scienziati americani per indebolire la Cina e noi italiani che abbiamo stipulato accordi con lei; chi è arcisicuro che sia il frutto di un complotto con al centro il perfido burattinaio Bill Gates; chi tira in ballo la massoneria, gli illuminati, le banche, le sette sataniche e così via, in un allegro minestrone di fantasiose cazzate.
Il virus non va preso sottogamba. Se fosse una quisquilia, come alcuni sostengono, non credo che tutti i Paesi del mondo sarebbero così allarmati. Ma ancor più delle ripercussioni sanitarie mi allarmano quelle economiche. Fa figo dire che “la vita umana vale più dei soldi”; se le aziende chiudono e la disoccupazione aumenta, molte vite umane vengono distrutte. E mi allarmano, soprattutto, le conseguenze a lunga scadenza. Presto – almeno lo spero –  tutta l’Italia sarà tornata alla normalità, le zone rosse saranno scomparse, le scuole riaperte e le ditte riprenderanno a lavorare come prima. Come prima? E’ una buona domanda. Perché il danno d’immagine che il nostro Paese ha subito nel mondo non sarà facilmente recuperabile. Ci sono camionisti austriaci che si rifiutano di guidare il loro Tir sulle strade della penisola e turisti olandesi che hanno cancellato le vacanze estive da noi. Esagerato, certo. Ma vallo a dire al loro cervello rettiliano.
Un leit-motiv della motivazione è che sopravvalutiamo ciò che possiamo realizzare in un anno, mentre sottovalutiamo quel che possiamo fare in un decennio. Perché siamo miopi. Non riusciamo a vedere molto più in là del nostro naso. Una riflessione, questa, che vale anche per il Coronavirus. Ci preoccupiamo tanto – anche eccessivamente – per lui, mentre non ci preoccupiamo affatto per tutti i virus che i cambiamenti climatici presto ci porteranno in dote. Sia perché, andando verso un clima tropicale, ci beccheremo anche le micidiali malattie tropicali; che anche perché lo scioglimento dei ghiacciai potrebbe rilasciare virus tanto antichi quanto pericolosi. Ma, non essendo una minaccia imminente, non ci pensiamo proprio. Anzi, deridiamo come allarmista, bufalaro, gretino (con riferimento a Greta Thunberg) chi ne parla. Mentre i cretini siamo noi.

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