A Napoli, Roma e in altre città si protesta contro il lockdown

A Napoli, Roma e in altre città si protesta contro il lockdown

In marzo e aprile, durante il primo lockdown, noi italiani abbiamo risposto con grande compostezza e disciplina ai limiti imposti.
Abbiamo accettato, quasi senza battere ciglio, le proibizioni imposte dallo Stato e dalle Regioni: eravamo convinti che, stringendo i denti per qualche mese, saremmo tornati alla normalità. I nostri sacrifici sarebbero stati ripagati: il virus sarebbe stato debellato, l’economia sarebbe lentamente tornata alla normalità.
Adesso, invece, benché non siamo (ancora?) al lockdown totale, chiusure e divieti infastidiscono una parte sempre più ampia della popolazione. A molti sembrano soprusi ingiustificati. Lo spirito di unione che c’era sei mesi fa non c’è più; ora prevalgono rabbia, rancore, contestazioni. Ne sono una prova non solo le manifestazioni di protesta in tutta Italia, ma anche la crescente insofferenza a tutti questi limiti. Basta parlare con le persone e andare sui social per capire che tanti li giudicano vessazioni inutili.
Imprenditori e commercianti, artigiani e professionisti sono tra l’abbattuto e il furente. E anche i lavoratori dipendenti sono inquieti: prima o poi la cassa integrazione finirà. Gli unici a restare sereni sono i dipendenti pubblici, che hanno il posto fisso e quindi non rischiano nulla; e gli unici a brindare sono i titani del web (che tra l’altro pagano pochissime tasse): Amazon, Netflix, Google, Facebook, Microsoft, Zoom… Non a caso i loro padroni si stanno arricchendo a dismisura, consolidando il loro primato di uomini più ricchi del mondo. Così i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e il ceto medio sprofonda nella povertà.

Sacrifici sì, ma solo se servono
Sappiamo tutti che negli ultimi mesi chi era al potere non ha fatto abbastanza per prevenire ciò che sta accadendo. Ma il malumore diffuso non deriva soltanto da questo. La risposta va cercata nella nostra mente, e nei meccanismi psicologici delle leve motivazionali.
Infatti siamo disposti e motivati a fare sacrifici, anche pesanti, a due condizioni:
1) Se sappiamo che servono;
2) Se sappiamo quando finiranno.
Queste due condizioni sono venute meno. Soprattutto la seconda.
Molti non sono affatto convinti che chiudere palestre, cinema, teatri, bar e ristoranti alla sera serva davvero a combattere il virus. Appaiono, a volte, sacrifici tanto drammatici quanto inutili. E quindi sbagliati. Tant’è vero che non solo i politici, ma anche i virologi sono divisi sull’utilità delle misure. Quel che è peggio, però, è che non abbiamo la più pallida idea di quando usciremo dal tunnel: a Natale? In estate? O forse mai, se è vero il virus si indebolisce con il caldo, ma ritorna con il freddo? Arriverà il vaccino? Funzionerà? Oppure dopo la seconda ondata ne arriveranno una terza, una quarta e chissà quante altre? Sembra il gioco dell’oca. Dove ritorni, sempre, al punto di partenza.
E’ proprio questa estrema incertezza a demotivarci. Le autorità ci impongono nuovi sacrifici; e noi, pur obbedendo, ci chiediamo – sotto sotto – se ne valga davvero la pena. Conte promette che servono per salvare il Natale, e gli acquisti ad esso collegati. Gli vogliamo credere. Ma non sarà che, passate le feste, ritorneremo come prima, con un nuovo lockdown?

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