Le tasse, Bergamo e i fucili
Sequestrare 15 persone e imbracciare un fucile all’interno dell’Agenzia delle Entrate, è una mossa che non ha scusanti. In uno stato di diritto si può tollerare la violenza in nessun caso. Ciò che si può e si deve fare è però interrogarsi sui motivi di questa febbre che sta investendo l’Italia: da sud a Nord, da poveri a ricchi, da piccoli a grandi. Nessuna giustificazione, ma qualche ragionamento è necessario farlo.
1. Diciamolo con chiarezza. Fino a pochi anni fa in Italia le tasse si riuscivano a tollerare. In parte perché il mercato tirava. In parte perché erano meno asfissianti. E in parte perché erano in qualche misura eludibili. Tasse, multe, sanzioni, tariffe erano sulla carta micidiali, ma alla fine si trovava un ragionevole e spesso celato accordo di non belligeranza con l’esattore, cioè lo Stato. Il paradosso era che il legislatore inaspriva pene e aliquote, e il contribuente fischiettando faceva finta di crederci: sapendo che avrebbero colpito sempre qualcun altro. Quando grazie a Visco e Tremonti la macchina dell’amministrazione statale si è messa a funzionare per davvero non c’è stato più scampo. Le aliquote sono rimaste vessatorie, le multe gigantesche, ma la macchina statale è riuscita a farsele pagare. Se vogliamo essere sinceri dobbiamo dunque ammettere, che la crisi fiscale di oggi nasce dalle leggi di ieri che lo Stato è riuscito a far rispettare solo oggi.
2. I cittadini contribuenti in questi ultimi mesi se la prendono con il braccio e non con la mente. L’Agenzia delle entrate si occupa di controlli fiscali, fa gli accertamenti. Non è infrequente che un suo funzionario faccia il furbetto. E cioè metta il presunto evasore nelle condizioni di preferire una transazione, posto che una causa gli costerebbe di più. In questi casi prendersela con il «braccio» è giustificato. E frenare questo genere di comportamenti (molto più diffusi di quanto al ministero ritengano) è fondamentale. Equitalia è soltanto colei che riscuote e lo fa come una macchina da guerra, senza guardare in faccia a nessuno. L’Agenzia delle entrate, il Comune, lo Stato, l’ordine, si rivolgono ad essa per farsi pagare il dovuto.
È chiaro dunque come Agenzia (anche se con l’eccezione dei furbetti) ed Equitalia non siano i colpevoli della situazione in cui siamo. Certo potremmo ridurre gli aggi che si fanno riconoscere (pari al 9 per cento). Ma il problema è nel manico: nelle leggi che hanno armato costoro e in quelle che hanno stabilito tasse e sanzioni.
3. I politici, quelli locali e quelli nazionali, sono in questo pavidi. Fanno finta che il problema fiscale e sanzionatorio nasca da cattivi comportamenti delle Agenzie. Al contrario nasce da loro. Facciamo l’esempio più terra terra. Un cittadino non paga una multa. Il comune chiede a Equitalia di farsela riscuotere. Gli interessi sulla multa non li decide Equitalia, ma guarda un po’ il Comune (che spesso applica tassi di interesse del 10 per cento, cinque volte superiori a quelli legali). Alla fine il colpevole della cifrona a cui si è arrivati sembra essere Equitalia. Al contrario l’intera responsabilità è dell’amministrazione comunale che ha il grilletto della multa facile e sugli interessi non fa sconti. Viene da ridere che poi i Comuni chiedano di disfarsi di Equitalia. Già lo prevede una legge, fatta da Tremonti. Sapete perché fu votata? Perché ad Equitalia non ne potevano più delle cartelle pazze. Funziona così. Il cittadino vince un ricorso presso un prefetto o un giudice di pace e non viene comunicato in tempi ragionevoli ad Equitalia. O ancora il cittadino paga in ritardo e non viene comunicato ad Equitalia. L’Ente manda dunque una cartellona al cittadino che si sente giustamente vessato. Ma dovrebbe prendersela con l’assurda burocrazia locale, che funziona ben peggio della macchina ben oliata e micidiale di Equitalia. Il braccio e la mente.
4. La questione dell’Imu è in questo senso clamorosa. Sentite cosa ha detto il presidente dell’Anci: «Vogliamo che all’Imu venga restituita la sua caratteristica originale e che rimanga sul territorio». Poiché oggi circa la metà del gettito va allo Stato e il resto ai Comuni, questi ultimi si lamentano del fatto di non incassare tutta la pagnotta. Il problema è che al contribuente frega poco la cassa in cui confluisce questa imposta patrimoniale; interessa il costo che deve sopportare. Ha ben poco peso sapere che essa sia territoriale o nazionale: ciò che ha peso è il suo valore assoluto. La battaglia è contro l’Imu, non contro chi la incassa. Resta comunque espropriativa anche se ad esigerla fosse Robin Hood.
Perché questo pistolotto sulle procedure, sui regolamenti, sulle diverse agenzie statuali? Perché la rivolta fiscale (pacifica e di diritto) potrà andare a segno solo se si hanno chiari gli obiettivi. Essi non sono i burocrati, che avranno pure le loro colpe, ed esercitano i loro compiti spesso in modo troppo «fiscale». Ma i politici e i governi che ci hanno riempito la testa sulla necessità di aumentare le imposte. Con la crisi finanziaria hanno progressivamente messo in ordine la loro macchina da guerra burocratica. Che oggi non fa altro che eseguire il compito per cui è stata costruita. L’obiettivo restano le leggi, le aliquote, le diverse imposte che paghiamo. Sono loro l’obiettivo della protesta fiscale.
Quel consenso da coro unico a favore della lotta all’evasione ha portato ad armare in questo modo la macchina fiscale. L’evasione non si batte con Equitalia e l’Agenzia delle entrate, ma con la riduzione delle aliquote. Il caso di Bergamo non deve essere giustificato. Ma i politici dovrebbero ricordarsi che molte delle nostre rivoluzioni occidentali sono nate proprio per ragioni fiscali.