Una delle idee ricorrenti di chi ci governa e caratterizza il pensiero diffuso di chi viene governato, è che in Italia manchi una politica industriale.
In quanti salotti, trasmissioni televisive o sedute da bar avete sentito questo binomio magico? Politica industriale. Ecco, se in un aspetto si può dire che Gramsci abbia vinto è quello di aver sostituito un’egemonia culturale borghese (tutta da dimostrare) con quella collettivistica.
Pochi mettono in discussione la necessità da parte del pubblico di scrivere un progetto per la crescita industriale del nostro Paese. Verrebbe da dire, al contrario, che proprio la presenza di una politica industriale, che si è sostituita al mercato, ha compromesso la crescita italiana. È ovvio che poi, ex post, i cultori dell’intervento di Stato invece di criticare alla radice la propria impostazione hanno sostenuto che erano le politiche adottate nel passato a essere sbagliate, non il principio. In pochi hanno contestato la necessità stessa di adottare scelte economiche centralizzate e pubbliche.
Franco Debenedetti con Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (Marsilio, 2016) ci ha provato. Scrive: «è tutta ideologica la convinzione che l’attività diretta dello Stato in economia possa rimediare ai mali – disoccupazione, arretratezze, iniquità e portare il bene crescita, protezione, innovazione». E ancora: «insana idea la politica industriale. Perciò è stato scritto questo libro: per indicarla a chi oggi non la riconosce; per convincere chi ancora non ci credesse; per confinarla nella sua riserva».

Debenedetti, oggi presidente pro-tempore dell’Ibl, ed ex senatore dell’Ulivo è stato per 35 anni manager di aziende private: le più diverse. Da quelle familiari a quelle manageriali. Il suo libro è un impasto di esperienza privata e letture minoritarie. Ricorda la Fiat di suo fratello Carlo e la Olivetti di Adriano, la Telecom di Colaninno e quella di Tronchetti. Arriva fino alla Cassa depositi e prestiti di impronta renziana, criticandola. E indugia su citazioni classiche molto godibili, dai Promessi sposi di Manzoni all’Inferno di Dante. È il libro di un manager letterato e liberale che conduce una battaglia isolata contro l’idea costruttivistica di uno Stato che pretende di sapere meglio di noi e del mercato cosa sia giusto per fare crescere l’economia. Non risparmia giudizi importanti anche sul ruolo della magistratura, talvolta strumento di politica economica o politico tout court. Nel caso di Telecom, Unipol-Bnl e oggi si potrebbe dire anche Ilva, l’intervento dei magistrati può creare danni che non possono essere rimediati da una futura assoluzione: le cose delle imprese non ritornano mai come erano ex ante.

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