Domenica 22 settembre 2013 – San Maurizio M. – Piana di Gioia Tauro.

San Ferdinando. Italia. Silenzioso, durante la pausa domenicale. Lo attraverso, mortificato. Mi sembra di violarne le strade semideserte. Saranno tutti a guardare la tv. Forse, le partite. Forse, le finzioni non dichiarate di certi programmi “di servizio”. Ancora qualche curva e arriverò a Rosarno, per l’inaugurazione della Personale di Adriano Fida. Le sue tele mi tormentano. Le vorrei mie. Tutte. Sono una sorta di cristallo che ha catturato la Luce e la tiene prigioniera in sé, liberandola solo per il tempo in cui osservi il quadro. Ecco perché mi sento incatenato quanto un innamorato ad ognuno dei suoi quadri… Ed ecco perché sfido l’apatia domenicale e mi catapulto alla Chiesa del Rosario…

San Ferdinando e Rosarno. Due paesi della Piana che cominciano a tremare, ora che le arance ingrossano sugli alberi. Fra poche settimane, milioni di piccoli soli cominceranno a brillare fra le foglie degli alberi. Foglie di un verde così intenso, di un profumo così forte, di una carnosità e lucidità così corpose, da sembrare finte. E saranno proprio loro a fare da sfondo alla luce di ogni singolo frutto. Di ogni piccola sfera magica, contenitore divino di succo vitale. Le stesse foglie che accarezzerano, senza essere minimamente considerate, le mani nervose di migliaia di neri. Schiavi.

Oggi come ieri. Un tempo, il cotone. Oltre il grande oceano. Senza possibilità di tornare da MammaAfrica. Oggi, i pomodori in Campania, l’uva in Puglia, e le arance a casa mia. Dio sa cos’altro, in giro per la penisola. Con la speranza di portare benessere laggiù, nella terra natìa, a chi è rimasto. Aspettando. Magari col sogno di una capanna più ampia e del pezzo di terra desertica che ci sta attorno e che, ancora, non appartiene alla famiglia. Sono loro,  i neri “buoni”. Quelli che non vedi la sera all’angolo dei baretti di periferia o ai giardinetti, in attesa che qualche tossico bianco arrivi con i soldi in mano, pronto a consegnarli in cambio di una bustina di merda da fumare, pippare o schizzare nelle vene. Già, perché esistono anche quelli. I maledetti. Irregolari anche loro. Ma antipatici a tutti.I primi, timidi lavoratori mi inteneriscono e mi creano uno stato di disagio con il mio presunto equilibrio etico, che, però, cerco di abbattere partecipando ad ogni campagna in loro difesa. Faccio del mio meglio per confortarli durante i mesi di permanenza in questo angolo di mondo che offre lavoro, ma ruba dignità. Gli altri li combatto. In tutti i modi. Faccio del mio meglio per cacciarli via. Per restituirli alle terre da cui sono partiti, forse spaventati da leggi più severe delle nostre e governi meno garantisti. Sono convinto che, per gli stessi reati che commettono in casa nostra, dalle loro parti rischierebbero cento volte tanto in reclusione e mille volte tanto in perdita di dignità umana. Le carceri, in quei Paesi, sono poco più che un buco profondo nel terreno. E basta. Tutti irregolari, dunque: è vero, ma con dei distinguo ben precisi. La necessità di cui sono vestiti i poveri lavoratori sfruttati li porta ad accettare paghe da fame, che, peraltro, cercano di non spendere. Anzi, spediscono mensilmente alla famiglia, tenendo per sé il minimo che serve a sopravvivere, vivendo come animali. Anzi, peggio.

Gli introiti del malvivere degli irregolari feccia, invece, sono alti. Tanto alti da farli sentire padroni di casa in casa nostra. Tanto da renderli arroganti e violenti. Già. Spacciatori, assassini, ladri, magnaccia, contrabbandieri… Il peggio del malaffare, con la benedizione delle norme sull’integrazione. Che non ci consente di distinguere. Cercano tutti, infatti, compresi certi nostri politici, di farci venire il senso di colpa se pensiamo male, se sospettiamo, se denunciamo, se accusiamo. Cercano di convincerci che il dovere di ospitalità comprende soprattutto l’accettazione di usi e costumi lontanissimi da noi. Tentano di vestirci di caftani, ungerci di olio di argan, cibarci di involtini primavera, aromatizzarci al cardamomo, convertirci a suon di bhajan. E chi se ne frega se, in mezzo ai buoni ci sono migliaia di stronzi. E’ il rischio da correre. E qui non ci sto più. Lo sappiamo tutti che certo “spaccio” è  in mano ai nordafricani. Che “i furti in casa” li fanno “quelli dell’est”. Che gli orientali controllano il mercato con metodi mafiosi. Anche qui, nel Sud. Ma, guai a dirlo! Lo sappiamo tutti che i nomadi delinquono quanto le clarisse pregano. Ma, tutti zitti! Rischi il linciaggio mediatico. E, così, col silenzio complice, fai il gioco di chi, forse non volendo, crea il vero razzismo generalizzato. E sì! Perché, così facendo, finisce che gli stranieri ci stanno sul culo tutti. I cattivi e i buoni. I delinquenti e gli onesti. Gli scansafatiche e i gran lavoratori. Perché, temendo di passare per inquisitori, ci consegniamo al più bieco razzismo. Quello di chi non salva nessuno. Quello di chi non sceglie. Quello “da appartenenza”. Quello non confessato, ma sibilato ad ogni occasione. Quando, per esempio, ci sembrano troppi i bimbi stranieri nelle aule degli asili e delle scuole e trasferiamo i nostri figli da un’altra parte. Quando ci urtiamo con la commessa colorata o dall’accento esotico e non acquistiamo più in quel negozio. Quando non assumiamo baby sitter straniere, perché finisce che rapiscono i bambini. Quando diciamo “son tutti ladri” “son tutte puttane”… Il razzismo di chi dice “io non sono razzista, ma”. Ecco, a non poter dire quanto sia bastardo il bastardo straniero che spaccia morte da Pordenone a Mazara, finisco col non sopportare Daniel, di Cluj Napoca, che ogni domenica incontro alla Chiesa ortodossa di Seminara. A pregare.

… fra me e me.

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