Mercoledì 29 gennaio 2014 – San Costanzo – Taurianova

28 Aprile 1999 – A casa. Vuota.

Se n’è andato alle sette del mattino del ventisei. Dopo quindici ore di agonia.

Eravamo tutti in cucina

Mamma gli aveva preparato due cucchiai di minestrina plasmon

ad un certo punto
Papà
seduto nella poltrona di fronte al caminetto
mi chiede di accompagnarlo a letto
Mamma arriva col piattino ed io tento di fargli assaggiare la minestrina

Mezzo cucchiaio  

seduto al bordo del letto

e poi mi dice «no»
Ci baciamo sfiorandoci le labbra e poi si stende Lo copro
Resta vigile ancora per poco
Quieto
Piccoli gesti rivelano una lucidità che si affievolisce piano piano

Alle diciassette stacca il contatto
quello più evidente
Mamma fa chiamare il prete
le mie sorelle piangono in cucina
Mi colpisce la lucidità di mia madre
una lucida rassegnazione carica di fede
sento il rantolo dell’agonia di papà
Vedo i capillari degli occhi colorarsi di verde e capisco

Capisco il segnale che mi sta mandando
Ecco l’Eucarestia
ecco l’offerta della propria vita perché gli altri ne capiscano il mistero

Ecco Gesù Cristo!
Ed ecco la mia fede irrompere nel cuore, nell’anima e in quella stanza. Abbiamo vegliato tutta la notte, mia madre ed io. Non ci siamo mossi un solo secondo. Le gemelle abbracciate l’una all’altra le abbiamo confinate nella grande cucina, a fianco al camino sempre acceso. Zia Lina si è stesa sul divano del salotto. Manuel con la febbre a quaranta dorme nella nostra camera.

Con mamma e me, zia Angelina e suo marito. 

Felice, mio cognato,  la nostra grande guida medica, fa la spola tra la camera da letto e il camino della cucina, dove, di tanto in tanto, cerca di consolare sua moglie Loredana, che a malapena trattiene le urla della disperazione per non far crollare Eleonora, che ha già tanti problemi.

Mi colpiscono al cuore, le mie sorelle: sono tornate bambine.

Alle sei e quarantacinque ho un flash: ma lui non sa come si muore.

E così mi avvicino e comincio a parlargli in un orecchio.

Sono come in trance. Qualcuno parla per me.

Chiedo a mia madre di lasciarlo andare così come faccio io, dopo aver detto a papà: «Stringi la mia mano ed allunga l’altra verso la luce del tunnel, perché dall’altra parte c’è la tua mamma».

Pochi secondi carichi di un amore che non avrei mai immaginato di saper vivere, pochi secondi.

Ho raccolto, respirandolo, il suo ultimo respiro, l’ho sentito entrare in me, e so che sarà infinito perché di processo chimico in processo chimico una parte di quello rimarrà sempre.

L’ho rasato, lavato, vestito, ricomposto sul suo letto. Poi ho chiesto di rimanere solo con lui.
Ho pianto, urlato. (Da Diario di una vecchia checca – di Nino Spirlì – Minerva edizioni) 

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Così è morto mio Padre. Dopo anni di malattia, mesi di emorragie, notti di dolore, ore di agonia. Distrutto nella dignità di paziente da una sanità calabrese ignorante, disattenta, arrogante e impunita. Qui, nella disperazione, ormai si fa affidamento solo sulla disponibilità di pochi medici amici o parenti. Noi abbiamo avuto mio cognato Felice, la nostra amica Irene. Ci hanno sostenuto. Aiutato nelle ore difficili della malattia di mio Padre. Mosche bianche.

Ciò nondimeno, Mimmo Spirlì, e con Lui tanti “Pianoti”, se n’è andato con un tumore al fegato, inspiegabile per chi non lo ha mai offeso, quell’organo vitale, né con l’alcool, né col fumo eccessivo, né con una condotta sessuale sconsiderata, né con la mancanza di igiene. Ha solo bevuto l’acqua delle nostre montagne e mangiato le verdure delle nostre terre. I polli allevati sull’aia, liberi di ruspare sotto l’occhio attento dei miei zii contadini. La carne vaccina cresciuta nelle stalle, dentro le quali mi accompagnava, mi faceva chiudere gli occhi e inspirare profondamente per farmi godere di quel “profumo di latte e fieno”, come diceva estasiato. I salumi dei nostri maiali neri o pezzati, a cui veniva dato anche il nome, tanto erano “persone di famiglia” a cui riservare rispetto e attenzioni. E che venivano sacrificati, utilizzando anche le setole per farne pennelli.

Di questo sono morti, da decenni, i nostri Cari. Di Calabria, sono morti. Di fiducia nella nostra e loro terra. Di tranquillità che “qui quelle porcherie non ci sono!” Eccome, se c’erano. Sepolte nelle dighe, impastate nel cemento delle case e delle strade; delle scuole e degli ospedali, magari. Nelle gallerie stradali. Nei corsi dei fiumi. Affondate nel mare.  Rotolate giù, nelle grotte d’Aspromonte, a fianco ai fiumi sotterranei. Alle falde acquifere.

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Sono morti, mio Padre e gli Altri, per la stupidità di chi ha avvelenato la terra su cui camminano anche i propri figli. Per la sete di potere. Per l’avidità di denaro. Per la malapolitica. Per i silenzi di chi sapeva e taceva. E tace ancora. Per le divise complici. Le toghe massone. I giornali sordomuti. E la gente rassegnata. Spaventata. Spesso risarcita con la promessa di un posto di lavoro.

E, con loro, moriamo tutti noi. Giorno dopo giorno. Sepolti da sensi di colpa per non aver alzato la voce e non farlo ancora. Per non aver denunciato e preteso che la Verità venisse a galla. Per questo scrivo, perché voglio risorgere, con la mia gente presa per mano, e chiedere di sapere la Vera Verità. Lo chiediamo al Procuratore Capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho. (clicca qui)

Lo chiediamo al Governo, ai politici calabresi. A tutte le persone oneste delle istituzioni.

Fateci trovare quelle tonnellate di morte. Aiutateci a smaltirle. Aiutateci a vivere meglio. Anzi, bene.

… fra me e me. Abbracciando l’aria nei luoghi di mio Padre.

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