La marcia di Parigi, come da programma, ha scatenato apprezzamento e condanna, sentimenti di simpatia e lontananza. Un’ondata di contraddizioni provenente in primis da quelli che, da questa marcia, avrebbero dovuto sentirsi rappresentati, ovvero i cittadini europei. Un evento che più che storico per meriti fisiologici, si è voluto rendere storico nella sua formulazione, nella sua presentazione ai media, nel dipingerlo come unica risposta possibile ad un attacco verso l’Occidente e i suoi valori. Premetto che per me non è stata una marcia trionfale, tantomeno un successo, soprattutto per quanto riguarda la testa di quel corteo. Coi suoi leaders in giacca e cravatta, i capi di stato, sembrava una pratica di circostanza tremendamente ipocrita e fasulla, qualcosa di fatto perché così c’è scritto che bisogna fare. Un qualcosa incapace di rappresentarmi e di rappresentare moltissime persone come me che dovrebbero, in teoria, essere e sentirsi cittadini europei.

Alla testa di quel corteo è andata in scena l’ipocrisia di numerosissimi politici europei che hanno grosse responsabilità riguardo la situazione mediterranea e mediorientale. Vi erano personaggi che fino a ieri ci mostravano i benefici della primavera araba di turno, il suo carattere evangelico ed evangelizzante. Vi erano gli alfieri della democrazia per esportazione, gli alfieri di una Europa che non unisce. C’era un trionfo di bandiere in Piazza della Repubblica, ma bandiere europee ce n’erano pochissime. Quella manifestazione ha avuto più il carattere di un secondo funerale ai morti di Charlie Hebdo che non quello di una rivendicazione di orgoglio, di identità e di appartenenza. Ce l’ha avuto a partire dalla sua formulazione, dall’aver fatto fin dal principio figli e figliastri. Quella manifestazione stessa è figlia pure di una porzione politica che, fin da quando il terribile agguato alla sede parigina di Charlie è avvenuto, si è preoccupata più di fare tribuna politica contro il Salvini o la Le Pen di turno che di offrire tutto il proprio supporto alle vittime. Pare esserci stata più veemenza nell’attaccare i capipartito di destra che sensibilità nel puntare il dito contro i responsabili del fatto di sangue. Ieri non è andata in scena la marcia di una Europa unita ma semmai quella di molte nazioni divise, divise pure al loro interno.

Nel sud della Francia, mentre le anime belle europee marciavano a colpi di foto e riprese, è andata in scena la marcia sponsorizzata da Marine Le Pen e dal Front National. La marcia dei dannati, degli ultimi, degli esclusi da tutto. Di quelli che non vanno di moda, che fa sempre prurito ospitare in qualche salotto, di quelli che non parlano di Europa, di Diritti e Democrazia, di concetti maiuscolati. Un partito ed una leader scomodi, che è meglio cancellare ed evitare se si vuole andare in piazza imbellettati e col sorriso. Strano però, perché a suon di parlare di democrazia ci siamo forse dimenticati di farla a casa nostra, e ci siamo dimenticati che quel partito così odiato, temuto, becero per bocca dei professori dei nostri tempi, è il primo partito di Francia per consenso elettorale. Marciamo per la libertà dei popoli dimenticandoci di cos’è il popolo, del suo diritto ad essere rappresentato. Si è preferito usare un fatto tragico per trasformare il tutto nella solita, trita e oramai inascoltabile retorica sul rifiuto dei fascismi, dei razzismi, sull’accoglienza, sulla condanna di una ipotetica strumentalizzazione. Qui l’unica strumentalizzazione che ho visto, personalmente, è stata quella di chi, a cadaveri ancora caldi, ha subito messo in piedi un gioco orribile per colpire l’avversario politico, di chi ha approfittato dell’occasione per provare, tristemente, a ritornare rappresentante del popolo dopo l’usurpazione.
La sinistra non dimentica, è vendicativa, non tollera usurpazioni. E quella del Front in Francia e pure della Lega in Italia è una usurpazione in piena regola. In termini elettorali, politici e in termini di consenso. La rabbia monta in partiti di sinistra che non riescono più a farsi intercettori delle istanze popolari più umili, che non sanno dar loro rappresentazione, che si ritrovano smarriti. In questi casi allora si tenta sempre di barrare la strada a chi può divenire l’intercettore della protesta al proprio posto. Può esservi la risposta più scaltra, quella di un centrosinistra in salsa renziana che tenta di attirare gli apparati più moderati della nazione. Ma c’è anche la risposta più rabbiosa, più puerile, e sta alla sua sinistra: quella di chi ha perso tutto, ha perso la propria dimensione elettorale, ha perso il passo nei confronti delle istanze del popolo, di chi come unica arma conserva una sola cosa: l’assalto indiscriminato all’avversario e al suo successo, con tutti i mezzi possibili.

La sinistra di oggi pare odiare ferocemente il popolo perché l’ha smarrito, perché sa benissimo che moltissimi operai, cassaintegrati, esodati, sia in Francia che in Italia non vogliono salotti, sofismi, filosofie, teosofie, psicodrammi e buonismi. Vogliono soluzioni immediate, presenze tangibili, capacità di dialogo e rappresentazione, vogliono poter confessare le proprie paure e le proprie necessità, anche quelle politicamente scorrette. E questo ormai, in Europa, non lo si fa nella piazza di Parigi, lo si fa nella piazza di Beaucaire con la Le Pen, lo si fa a Musile di Piave con Salvini. Il popolo è lì, consegnato in toto al nemico a son di cianciare di populismo e demagogia.

Parlando proprio di rapporto tra Islam e Occidente sentivo ieri, in una nota trasmissione serale di La7, un giovane dire che “non si può far parlare chi non arriva agli ottocento euro al mese”. Un giovane in giacca, occhiali da hipster, erre arrotata, espressione massima del ben pensare de sinistra in salsa europea. Non me la sento di attaccarlo perché esprime chiaramente quello che è la sinistra oggi. Rifiuto del più povero e del più debole, al quale si può pure tappare la bocca. Negazione del disagio, elogio del buonismo. Rifiuto per le classi più povere e disprezzo delle stesse. Non c’è cosa più trendy, al giorno d’oggi, di usare il termine populismo come offesa. E’ un qualcosa che potrebbe tranquillamente essere adottato come criterio di iniziazione per un percorso che parte dalle giovanili del PD, dalle università, dagli apericena meticci, dai lupanari dell’accoglienza. La sinistra oggi è questa, e sfila in giacca e cravatta dopo aver tentato di esportare la sua democrazia in giro per il mondo. Permetteteci di dissentire, e di preferire la piazza di Beaucaire. Che forse ha ancora il diritto di venir chiamata piazza, e non palcoscenico.

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