Malala Yousafzai
Da un po’ di mesi, ben prima della consegna del Nobel, ci siamo sorbiti una instancabile quanto puntuale predica su Malala Yousafzai, la giovane attivista pakistana per l’educazione femminile e i diritti umani, la cui attività è stata pure  inserita tra le tracce degli ultimi temi di maturità italiani. Il nuovo prodotto dei sensi di colpa occidentali viene presentato, su quotidiani left, progressisti e mentalmente aperti come il nuovo raggio di luce (sia mai italiano, per una volta) su di un mondo fatto di cattiveria, malessere, ingiustizia.

Sicuramente la proskynesis intellettualistica sul valore del libro come deterrente nei confronti della guerra, più in generale del libro come oggetto salvifico e feticcio sacrale in rimedio ai mali del globo, all’ignoranza, alla fame, alla guerra e alle malattie sta conoscendo una certa fortuna, in un determinismo pure piuttosto caro ai produttori di messaggi soteriologici al sapore di apericena equosolidali. Capita così sempre più spesso di leggere su numerosissime testate della Malala che promuove libri, letture, scambi di testi tra adolescenti e ragazzi, in un profluvio di frasi fatte e argomentazioni a metà. In tutto questo c’è come la sensazione che il libro e la cultura in genere come astratti riferimenti siano una ennesima religione laica per progressisti annoiati, che non si rendono conto che il derubricare un libro ad una mera icona post-religiosa dotata di poteri curativi è il peggior danno che gli si possa arrecare, perché significa prediligere la semplice promozione di un contenitore rispetto a dei contenuti pure vari e sterminati nella loro multiformità. Elogiare il libro-perché-libro o la cultura-perché-cultura significa evitare una discussione molto più proficua sulla loro sostanza, che è poi la cosa più importante.

Il libro non è un oggetto né un crocefisso da adorare, bensì uno spazio in cui si possono trovare contenuti talvolta faziosi, inesatti, fuorvianti, narrazioni storiografiche capziose, interpretazioni parziali e inadeguate, pure a volte schiacciate sul piano della moda del tempo, o della convenienza politica. Fare del libro un fenomeno di culto è quanto di più errato e illusorio ci possa essere, perché significa portarsi verso una accettazione totale (totalitaria?) e aprioristica di un testo solo perché fa chic tendere verso una acculturazione di stampo globale, verso una missione umanitaria internazionale di salvezza dall’ignoranza, tanto che tra i titolisti delle prodi imprese della signorina Malala, pare sempre di scorgere quel Guidobaldo Maria Ricciardelli che, in un impeto di orgoglio nazionalpopolare, il nostro Fantozzi denudò da una nebulosa, inafferrabile e prolissa passione per la sindrome dell’acculturazione coatta del prossimo.

Cara Malala, non sarà un libro a “salvare gli uomini dalla guerra”, perché di libri ce ne sono stati tanti pure a favore delle guerre, a favore delle violenze e delle usurpazioni (pure non belliche o guerreggiate), e una mera corsa verso un indefinito acculturamento non può livellare la produzione esperienziale dell’essere umano ad un ideale di positività astratta. Il termine libro raccoglie esperienze e racconti talmente vasti, diversificati e in conflitto tra loro che una religione laica basata su di una loro adorazione rischia di divenire l’ennesimo scherzo di un mondo alla ricerca disperata di qualcosa a cui aggrapparsi. Riprendendo Fantozzi, possiamo dire che questa adorazione del San Colto delle Biblioteche, questa contrizione idealizzata, questa nuova, totalizzante Corazzata Potemkin del politicamente corretto sono proprio una cagata pazzesca.

Alessandro Catto

Tag: , ,