no global consolato ungherese-2
Ieri mattina una delegazione di no-global ha bloccato l’accesso al consolato ungherese di Venezia, in risposta alla politica di chiusura da parte del governo magiaro nei confronti degli immigrati in arrivo da Oriente. Una protesta che non deve stupire, specialmente se analizziamo un po’ più da vicino la storia di questi movimenti, che conosciamo fin dal G8 di Genova del 2001. Una rete di attivisti che ha l’ardire di definirsi contraria alla globalizzazione, ma che in realtà, anche con le pratiche che abbiamo scorto ieri nel capoluogo veneto, ne diventa la prima pedina.

Tra le mille cose che pure ieri potevano fare per mettere in campo una mobilitazione seria riguardo gli avvenimenti che sconvolgono il Mediterraneo, i nostri ragazzotti con il passamontagna arcobalenato hanno scelto la via più insensata. Al posto di manifestare di fronte ad un consolato o ad un’ambasciata americana, francese o inglese, hanno preferito inscenare un teatrino propagandistico-assolutorio per sdoganare la solita idea di immigrazione totalitaria e senza possibilità di discussione. Piuttosto che analizzare le cause e condannare i veri colpevoli, si è preferito denigrare una nazione che con le motivazioni degli esodi di massa che vediamo puntualmente abbattersi sui nostri confini non ha nulla a che fare. E’ facile capire che per i coraggiosissimi manifestanti di ieri possa essere un po’ problematico mostrare lo stesso zelo e la stessa veemenza di fronte ad una bandiera a stelle e strisce o alla Union Jack, ma va detto loro che in realtà i veri responsabili del dramma dell’immigrazione si riuniscono sotto quei vessilli. No, cari miei, non è stato Orban a premere per la destituzione di Gheddafi o di Assad e non è l’Ungheria l’artefice delle primavere arabe, così come non è da imputare ai diplomatici magiari la fissazione per l’esportazione delle democrazie in terre altrui. Non è Orban a rifornire i guerriglieri dell’ISIS, non è Orban a curare gli jihadisti feriti in ospedali ungheresi, non è Orban ad istituire divieti di volo al confine turco per impedire ai caccia siriani di bombardare le postazioni dell’ISIS, o ai curdi di tagliare i rifornimenti dello Stato Islamico attraverso la Turchia. L’Ungheria si ritrova semplicemente a vivere gli effetti deleteri di un caos creato da altri, che si abbatte sul confine di una nazione di appena dieci milioni di abitanti, che giustamente tenta di tutelarsi. Quelli che oggi giocano a fare i rivoluzionari di fronte al consolato ungherese dovrebbero andarsene, coi loro teloni e i loro megafoni, dinanzi a qualche base statunitense o a qualche consolato turco, chissà che levandosi gli stracci color arcobaleno coi quali si nascondevano il volto e con cui, metaforicamente, amano pure coprirsi gli occhi, possano capire quali siano i reali artefici di questa devastazione.

E’ proprio tra i no-global, invece, che troviamo un compatto gruppo di utili pedine, di persone che se la prendono con l’Ungheria perché non stende tappeti rossi ai Migranti, perché non accetta di veder distrutta la propria identità nazionale, e la tutela del proprio popolo. In questa manifestazione non vi è nessuna analisi articolata, nessun coraggio, bensì una triste ricaduta nel fine settimana di quel titolaccio del Manifesto sul piccolo bimbo morto in una spiaggia turca. Quell’indignazione propagata come fosse incenso, a voler smuovere qualcosa di indefinito, a voler cancellare responsabili, vittime e carnefici in nome di una cieca e totalitaria accettazione del presente, che recita accoglienza, accoglienza e ancora accoglienza. Vi è solo un belato politicamente corretto e amico dei manovrieri, di quelli che oggi puntano il dito su Orban per nascondere il proprio corpo coperto di sangue. E’ tra chi propina un’accoglienza senza sé e senza ma che troviamo l’ombra del mandante, che non vuole inzaccherarsi ulteriormente la coscienza provando a pensare se non sia proprio lui, con la sua retorica spicciola, con la sua democrazia al sapore di F-35, ad aver causato i drammi del presente. Ecco, le persone che hanno manifestato ieri non sembrano altro che i facchini dei vari Henry Levy, degli Hollande, degli Obama, che oggi hanno gioco facile ad accusare l’Ungheria, perché troveranno sempre degli amici no-global (dovremmo dire pro-global) a regger loro il gioco.

Resta solo da chiarire con che coraggio questi figuri possano definirsi anti globalisti, quando non mancano occasione di dimostrare la propria soggiacenza culturale ed ideologica agli ambienti più convintamente omologanti oggi attivi al mondo, e con quale faccia tosta si possa presentare l’Ungheria come colpevole di ciò stiamo vivendo sulla nostra pelle,  che a detta dei suoi veri responsabili durerà altri vent’anni. Resta da chiarire perché un paese che non ha minimamente contribuito a creare il disastro odierno debba farsi carico di problemi originati da altri. Resta da chiedersi se tra i baldi megafonati lagunari ci fosse qualcuno che quattro anni fa difendeva Gheddafi dall’aggressione subita da lui e dal suo paese, o che oggi difende Assad. Resta da chiedersi se per queste persone un flusso incontrollato di milioni di individui provenienti da altre zone del pianeta non sia un fenomeno non solo globalizzante, ma pure dannoso, sia per gli emigrati, che si trovano sradicati dalla propria terra d’origine, sia per gli indigeni dei paesi fatti oggetto di immigrazione, costretti a dover ospitare masse di disperati in paesi già provati da crisi e problemi interni, mancanza di occupazione in primis. Ma forse chiediamo troppo.

(Alessandro Catto)

 

Tag: , , , , ,