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Ale Agostini è ormai una presenza consolidata nel panorama dello sviluppo web in Italia. Laureato alla Bocconi, amministratore di Bruce Clay Europe con decenni di esperienza nel marketing internazionale alle spalle, tra collaborazioni con Ferrero International, Campari Italia e la pubblicazione del volume “Trovare clienti con Google”, che ha fatto registrare un ottimo successo editoriale con Hoepli. Abbiamo voluto intervistarlo perché, grazie alla sua esperienza sul campo della traduzione ( è stato socio di Agostini Associati) e alla sensibilità rispetto al tema, volevamo provare a capire il peso culturale che la lingua inglese anche grazie alla diffusione capillare dei social network sta assumendo nella vita quotidiana degli italiani e dei “non anglosassoni” in generale. Una presenza che va via via infittendosi e che determina un cambiamento di concezioni e di interpretazioni da non sottovalutare, e che probabilmente ci accompagnerà in maniera sempre più forte nei decenni a seguire. Vediamo ora genesi e prospettive di questo fenomeno.

Ale, lei che lavora in un network di livello globale certamente si sarà reso conto, toccandolo con mano, del peso sempre più forte delle terminologie anglosassoni nel vocabolario comune dell’italiano medio. Come definisce questo nuovo modo di comunicare?

E’ un argomento che mi interessa da molto tempo, ho avuto modo di svilupparlo sia grazie al mio lavoro sia anche alla sensibilità di personaggi attenti all’evolversi delle terminologie comunicative su larga scala, anche sul piano politico; in questo caso assieme a Gian Antonio Stella si è riflettuto sul peso culturale e politico della massa di termini di derivazione anglosassone sostituiti a parole già presenti in lingua italiana, che vengono sacrificate sull’altare di una nuova codificazione linguistica inglese che pare essere più adatta a stare al passo coi tempi. Noi lo chiamamo Itanglese, e possiamo identificarlo anche come pratica modaiola, più retorica che altro, utile a dare un tocco di internazionalità ad un qualcosa che spesso non necessita nemmeno di averlo nella vita di tutti i giorni.

Possiamo parlare di prestiti linguistici o la cosa va oltre?

Il prestito linguistico avviene quando non esiste un termine nella lingua autoctona capace di identificare un qualcosa di esistente o nato in un’altra cultura, così è necessario ricorrere al termine originario in lingua straniera per identificarlo. Qui invece notiamo un utilizzo dell’inglese per sostituire definizioni già esistenti nella lingua italiana, quindi no, non possiamo parlare di prestito linguistico.

Crede che questo utilizzo sempre maggiore dell’Itanglese, come lei lo definisce, derivi da una globalizzazione economica e da una presenza nella prassi tecnologica e finanziaria di una matrice anglosassone sempre più forte, a scapito di un ritardo italiano ormai non più negabile?

Assolutamente sì. E’ inevitabile riscontrare come il ritardo di paesi non anglosassoni nel mondo finanziario e tecnologico negli scorsi decenni abbia determinato una intrusione sempre più forte di terminologia straniera nella discussione di questioni che sarebbero esplicabili anche in lingua italiana. Il peso sempre più forte delle aziende e delle grandi corporazioni anglosassoni nel mondo finanziario ha fatto la sua parte, ma un grande ruolo è quello giocato oggi dai social network, che in pochi minuti possono far venire a conoscenza di un fatto una enorme massa di persone in tutto il mondo. Termini come like, tweet, blog, share sono ormai parte integrante del bagaglio culturale delle giovani generazioni, grazie al ruolo di accentramento globale esercitato da queste piattaforme, che hanno progressivamente sostituito mezzi di informazione più circoscritti come la televisione o la radio.

Pensa che questa forte presenza di terminologia e cultura inglese nella vita quotidiana non solo italiana ma europea sia figlia di una subalternità politica ed economica del Vecchio Continente nei confronti dei cugini d’oltreoceano?

Certamente può essere riscontrata una subalternità economica e pure geopolitica europea verso gli Stati Uniti che si sviluppa già a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, con l’introduzione di modelli di sviluppo e di consumo che inevitabilmente hanno portato con sé tutta una terminologia di derivazione anglosassone che, nell’era della tecnologia e dell’informazione, hanno amplificato grandemente la propria presenza, continuando a crescere a livelli esponenziali di anno in anno. Una globalizzazione culturale che pare non arrestarsi.

Spesso sentiamo il nostro premier Matteo Renzi dire che l’Italia, dalla globalizzazione, può trarre molti vantaggi, e che in futuro ci sarà sempre una maggior necessità di italianità nel mondo. Cosa pensa di questa chiave di lettura, e soprattutto è d’accordo con le idee del presidente del consiglio in tema?

Per certi versi è inevitabile dire che l’Italia dalla globalizzazione potrà sicuramente trarre dei vantaggi, perché le sue specialità ed eccellenze potranno arrivare a molte più persone di un tempo, tuttavia va detto che l’Italia potrà giocare un ruolo positivo in una economia globalizzata solo se saprà mantenere e difendere le sue tipicità, di conseguenza la sua cultura e il vettore della stessa, che è la sua lingua. La globalizzazione non va affrontata come se si trattasse di un tuffo spensierato nel mare, ma va preparata con intelligenza e ci si deve attrezzare per arrivarci con tutti i sistemi di difesa utili ad una politica intelligente. Parliamo per esempio del cibo. L’Italia deve presentarsi all’appuntamento globale conscia della propria superiorità culturale in materia di qualità del cibo. L’Italia non deve importare la cultura del lunch, del brunch e del fast food ma deve esportare la propria qualità e il proprio rigore in materia. Concordo quindi solo in parte; può essere una ricchezza, ma lo sarà solamente se la classe politica italiana saprà rendersi conto della ricchezza portata dalla diversità delle varie culture, e dalla necessità di una loro difesa e preservazione.

Crede che questo inevitabile accentramento globale verso una informazione standardizzata anche linguisticamente sia un fenomeno inevitabile o per contro potranno nascere dei fenomeni di resistenza in grado di ribaltare l’attuale situazione?

Molto dipenderà da come i singoli individui interpreteranno la globalizzazione e una certa inevitabile standardizzazione da lei portata. Nel nostro piccolo l’azione di preservazione e difesa della lingua è individuale; quando sentiamo utilizzare un termine inglese al posto di uno italiano pure esistente, possiamo ricordare al nostro interlocutore che si può tranquillamente fare un discorso interamente in italiano. E’ un lavoro che spesso sfida la pigrizia e una certa, pigra abitudine ad un dialogo standardizzato, ma che deve partire dal basso per avere successo.

(Contatti: Ale Agostini su Facebook QUI)

(Alessandro Catto)


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