Da anni siamo esposti sul web e sui social ad articoli che narrano l’epopea extranazionale dei migranti di successo, persone che in qualche paradiso terracqueo con annesso accento anglosassone hanno aperto la loro attività, facendo (ad ascoltar loro) soldi a palate per poi venir ospitate in qualche giornale a narrarci di quanto l’Italia sia brutta e cattiva, di come sia giusto andarsene, di quante poche opportunità ci siano nel nostro paese per i giovani volenterosi che ogni giorno si sbattono contro la mancanza di prospettive, il fisco, lo stato, l’assenza di diritti, l’uomo nero della chiusura mentale e della ristrettezza dei confini.

Una retorica sinceramente stancante, dietro alla quale è lecito chiedersi quale tipo di volontà ci sia o quale profondo messaggio si cerchi di veicolare. Pure inesatta, perché a fronte della facilità con la quale vengono dipinti i meriti e le bellezze dei paesi stranieri, si sorvola volentieri sui tanti giovani partiti e poi tornati, scontratisi con l’alto costo della vita nella mecca londinese o di qualche altra city europea in vena di narrazione modaiola. Scontratisi, ancor più spesso, con la durezza della vita e della solitudine, trovando volentieri consolazione nell’abuso di alcool e stupefacenti.

Insomma, tanto facile e bello narrare le beltà intrinseche della migrazione, ma come accade con i profughi da accogliere a casa nostra, molto più difficile diventa scandagliare il fondale di interessi, di distorsioni e di luoghi comuni che possono sottostare al fenomeno.

Smettiamola, per favore, con questa corsa all’oro ideologica in terra straniera, con questo continuo piagnisteo al sapor di esterofilia al quale siamo continuamente esposti, di pari passo al continuo svilimento, inconsapevole o meno, delle potenzialità del nostro paese.

In questa corsa alla migrazione, alla ricerca della soluzione di stampo individuale, si è perso qualsiasi tipo di legame produttivo con la propria terra d’origine, vista, più che come una comunità nella quale esprimersi ed eventualmente lottare per cercare di cambiare le cose, come una sorta di porto d’attracco dal quale salpare, alla ricerca perenne di un facile paradiso straniero, come se poi all’estero si regalasse lavoro senza causare problemi, storture o differenze di trattamento, spesso culminanti in processi di repulsione come nel caso della brexit, o dell’ascesa dei partiti nazionalisti come il Front National.

In questa continua lode all’emigrazione, ad un lavoro che abbia il nome in inglese ché fa sempre un po’ più figo, c’è tutto il sapore della rinuncia all’identità e alla stabilità. Il mondo diventa una sorta di grande contenitore dove svolazzare alla ricerca di una posizione, l’immigrazione senza confini e senza regole diventa un qualcosa al quale ricorrere alla minima difficoltà o pure in assenza di reali problemi, andando a supplire ad una sempre latente malsopportazione verso il proprio paese e ad una certa mancanza di volontà nello sporcarsi le mani, nel vedere cos’altro c’è a disposizione sul al di là del proprio titolo di studio, nel mercato privato o nell’aprirsi una propria azienda.

Diciamolo: ha ragione pure Poletti quando dice che alcune delle persone che se ne vanno non rappresentano una grossa perdita, specie quando il rimanere si tramuta per loro in una continua nenia esterofila e anti italiana, sullo sfondo di una incapacità di adattamento, di una incomprensione delle architetture del sistema economico e di una incapacità puntuale a valutare il proprio paese come una opportunità e non come un limite.

Hanno rotto le scatole tutti questi aedi del nord, i nuovi bardi delle terre anglosassoni calati dal pero a fare la morale a noi poveri giovani rimasti a casa, a predicarci l’espatrio, l’uscita dal paese, l’apertura dei nostri confini mentali e politici.

Chiudo dicendo che le prime persone a dover emigrare, in realtà, dovrebbero essere quelle che qui spingono in continuazione i giovani italiani ad andarsene dall’Italia.

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