Testacoda, pentimenti, scuse; la scelta di Donald Trump di avallare il bombardamento alla base aerea siriana di Sharyat ha consegnato una intera fetta di opinione pubblica, quella pro-Trump e contemporaneamente pro-Putin, all’incomprensione e quasi al panico. In realtà sembra che poche persone abbiano provato a vederci più a fondo nella vicenda mantenendo raziocinio e buona capacità di lettura.

Quel che sappiamo, e lo sappiamo da tempo, è che il Presidente americano, chiunque esso sia, non detiene poteri sconfinati. Il suo campo d’azione è continuamente mediato da vari strati di funzionari, responsabili, direttori di dipartimenti e uomini che si muovono dietro le quinte e spesso lontani dai riflettori. Sto parlando del cosiddetto deep state americano, un insieme di personaggi che ancora oggi più di altri incarna le esigenze della diplomazia a stelle e strisce per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, all’insegna del tentativo di conservare e rafforzare la posizione di predominio globale degli States con politiche interventiste.

L’elezione di Trump era stata salutata come una rottura anche nei confronti di questa porzione di potere, oltreché rispetto alle scelte di politica estera per cui si erano contraddistinti i democratici negli anni di gestione Obama, con Hillary Clinton in prima fila quale rappresentante di un filone liberal capace di coniugare una presunta appartenenza a valori di sinistra democratica ad una spiccata aggressività geopolitica, condita da una forte tensione antirussa.

Trump si è già rimangiato le parole, mostrandosi uguale ai suoi avversari d’un tempo? Direi di no. Più semplicemente, come spiegato ieri sulla nostra pagina nel commentare il raid in Siria, si è dimostrato più influenzabile di quanto si credesse proprio da quei settori del deep state che fin dal giorno della sua elezione ne hanno minato il percorso e le promesse elettorali, tra richieste di dimissioni, proteste di piazza ben alimentate e guai giudiziari sempre pronti a scoppiare.

The Donald, assieme ai suoi uomini, ha dovuto e deve tuttora fare i conti con questo tipo di pressione. Se Rex Tillerson ha mostrato una ottima capacità di adattamento al potere, molto meno adatti possono essere sembrati Flynn e Bannon, altri personaggi sacrificati sulla strada di una apparente resa a forze esterne a quelle presidenziali.

Arriviamo così all’intervento in Siria, e alla giravolta nei confronti di Assad. Tanto per cominciare, diventa oltremodo ingenuo pensare che la reazione militare sia stata scatenata da un attacco emotivo del presidente alla vista delle immagini dei bimbi colpiti dai gas chimici, visto che di morti, anche giovanissimi, in Siria ce ne sono da anni e da anni ci vengono quotidianamente mostrati, causati da ambo le parti in una situazione bellica ancora irrisolta.

Puntando sulla tesi dei cambiamenti repentini di umore, per usare Aldo Giovanni e Giacomo, le cronache di questi giorni non hanno ben inquadrato cosa ha rappresentato e cosa con ogni probabilità rappresenterà l’attacco alla base siriana nei giorni a venire. Un attacco lungi dal poter essere paragonato ad una operazione bellica su larga scala in stile Iraq 2003,  i cui tempi e modalità di preparazione anche diplomatica sono ben più lunghi dello stato dei lavori ad oggi riscontrabile nei confronti della Siria.

Manca una idea su come sostituire Bashar Al Assad, vi è la presenza della Russia con la sua estrema contrarietà ad un intervento armato, ma vi sono soprattutto larghi strati di popolazione americana, di collaboratori e di aficionados del Presidente eletto che non vedrebbero di buon occhio un ennesimo intervento armato.

Ecco che allora arriva un attacco missilistico estemporaneo di portata tutto sommato limitata, con danni tutto sommato limitati e nemmeno ancora ben chiariti, con notizie di una base aerea pure ancora funzionante e di missili mai giunti a destinazione. Un attacco di cui la Russia era stata tra l’altro preallertata che, più che un cataclisma mondiale o il preludio di un conflitto interplanetario, sembra un colpo sbattuto sul tavolo, un segnale di presenza e di autonomia che Trump ha voluto concedere proprio per mediare e non arrivare allo scontro con quei settori interventisti che tanti problemi hanno creato e possono ancora creare alla sua presidenza.

Una concessione quasi dovuta a livello politico interno, ma circostanziale e tutto sommato limitata negli esiti, un avvertimento multidirezionale di cui Putin può essere stato messo al corrente e i cui esiti, abilmente strumentalizzati proprio per alimentare una sensazione di attacco grave, sono pure utili alla Russia e alla Siria per evitare uno scontro militare tra USA e Siria di ampia portata nonché una immediata degenerazione del conflitto, certamente possibile se al posto di quella Trump ci fosse stata una presidenza dall’accento ben più interventista e dalle idee più strutturate ed uniformi in tema di politica estera.

Un attacco estemporaneo quindi, di cui, volendo fare i complottisti (me lo si concederà, preferisco aggiungere chiavi di lettura piuttosto che levarle), pure Assad poteva essere non del tutto disinformato, attacco accettato nella speranza e nella credenza che possa rappresentare l’emblema di una linea d’azione tutto sommato limitata, capace di ridurre i danni derivati da uno scontro frontale pianificato.

Una scelta diplomaticamente utile insomma, che può far storcere certamente il naso e che può preludere ad un inasprimento dei rapporti, ma che a livello politico per ora non sembra niente di più che un colpo simbolico per tentare di sparigliare le carte, mandare un avvertimento e un segnale di presenza sia agli alleati (da sempre perplessi sull’affidabilità occidentalista di Trump) che ai nemici, tacitando il dissenso dell’establishment interno e mostrandosi indipendente ed imprevedibile agli occhi dell’elettorato.

Come detto, difficilmente credo che il tutto evolverà verso un conflitto strutturato su larga scala. Lecito ora chiedersi se i testacoda, le scuse e le sudate lette in questi giorni in molti network non siano stati leggermente avventati?

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