La cultura antifascista non può imputare ai social i propri limiti
In questi mesi diversi personaggi pubblici hanno puntato il dito contro la marea di dissenso populista montante nei social network. Una platea, quest’ultima, formata da persone a vario modo scontente che utilizzano Facebook per esternare la propria contrarietà verso le attuali politiche, spesso in maniera semplice e popolare, talvolta esternando nostalgie verso anni passati se non riconducibili al ventennio fascista.
È possibile notare quanto questo fenomeno sia presente in molte pagine e gruppi, ed è altresì facile notare quanto l’antipopulismo militante abbia costituito un contraltare altrettanto semplicistico e poco capace di analizzare a fondo il tutto, imputando solo ai social la colpa di questa “riemersione nera” con cotanto di indagini e mappature, con alle spalle un certo elitarismo ben riscontrabile nella frequente riproposizione della frase di Umberto Eco che imputa ai social la capacità di dar voce a “legioni di imbecilli” sparse nel paese.
Ma è davvero così? È davvero solo il social network la causa di tutti questi mali o le motivazioni sono più profonde?
Per lavoro mi occupo di comunicazione a 360° e da sempre sono estremamente curioso. Per questo non mi soddisfano né tecnicamente né umanamente le semplicistiche accuse mosse al web, per motivi molto chiari.
I nostalgici del fascismo in Italia ci sono sempre stati, in dimensioni nemmeno troppo trascurabili, e il social network è solamente un mezzo che ha permesso l’aggregazione di idee già presenti in precedenza, che per vari motivi in Italia emergevano in maniera minore. Semmai, il vero problema è di una certa cultura antifascista che per troppo tempo non si è confrontata con il reale pensiero di larghe fette della società mai raggiunte dal suo messaggio o raggiunte con inefficacia.
La trasmissione dell’antifascismo resta ancora una lezione per pochi, aprioristica, che non ha favorito un dibattito maturo diventando troppe volte vezzo di costume e fenomeno di appartenenza. Un fenomeno che ha favorito la polarizzazione delle parti in assenza di un dialogo costruttivo, spingendo i contendenti a lidi sempre più estremi ed incapaci di comunicare tra loro.
Incapace di scalfire credenze profonde, nella platea fascista ha anzi favorito una vittimistica sensazione di esclusività e settarismo che non ha fatto altro che rafforzare la permanenza di atteggiamenti nostalgici, rafforzati anche da una puntuale incapacità a valutare con calma e a mente fredda reali demeriti e meriti del Ventennio. Una scuola culturale sempre piuttosto elitaria, piuttosto snobistica, poco capace non solo di promuovere il confronto, ma anche di valutare storicamente i propri limiti e la propria capacità di coinvolgere sempre più persone, non solamente i propri afferenti e militanti già convinti, in una tensione sempre volta allo scontro e al contrasto che non alla comprensione e al confronto, al dialogo.
Una pecca trasversale che va dalla trasmissione scolastica, pure piuttosto ridondante nelle sue appendici accademiche, fino all’inevitabile ripercussione politica, con un livello di maturità francamente insufficiente e l’incapacità di confrontarsi con tutte le periferie reali, virtuali e politiche del paese.
Se poi le modalità comunicative raggiunte dal fenomeno non sanno affrontare ciò, di certo non ci si possono aspettare dei successi, ma certamente ci si può aspettare che con un mezzo di una potenza straordinaria quale il social, tutte le persone di idee diverse siano facilitate a riunirsi e a fare comunità, così come del resto avviene anche per la propria controparte, mostrando tragicamente non le pecche di un mezzo virtuale (che svolge egregiamente il suo lavoro) ma di una cultura e delle sue modalità di trasmissione e comunicazione.
Non è né colpa dei social, né della modernità, né di un fantomatico analfabetismo di ritorno, ma di chi non ha saputo promuovere negli anni in maniera efficace il proprio pensiero dal punto di vista culturale e comunicativo. Prendersela con i social network per il fallimento e la mancata pervasività di un ideale promosso da noi stessi si traduce solamente in una tragica deresponsabilizzazione.
Più utile invece sarebbe comprendere come viene affrontato il fenomeno fascista e come cultura e storiografia ufficiale oggi lo analizzino, con quali limiti. Una discussione allacciabile anche alla presunta utilità del debunking, in cui gli scetticismi sulla reale indipendenza di chi lo effettua si accompagnano a quelli inerenti la presunta utilità della pratica, analizzata di recente anche in uno studio scientifico.
Sarà più produttivo continuare una polemica sterile o superficiale o tentare di comprendere il fenomeno dalle radici? Personalmente opto sicuramente per la seconda. Con buona pace di chi è abile a scandalizzarsi e pontificare sugli effetti quanto poco abile a comprendere cause profonde.
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