La rivolta araba ha compiuto un anno. Iniziata con il suicidio di un venditore di frutta in Tunisia, si è propagata come un furioso incendio abbattendo dittatori aspiranti a stabilire “monarchie repubblicane” in quel paese, in Egitto, nello Yemen, in Siria. Minaccia il potere di monarchie religiose o laiche in Marocco, in Giordania, nel Bahrein. Spaventa sistemi dittatoriali “ideologici” in Iran, in Cina, preoccupa quello autoritario russo. Ha sviluppato enormi speranze e entusiasmo in Occidente e provocato migliaia di morti negli scontri fra rivoluzionari e contro-rivoluzionari oltre a quelli della “guerra umanitaria” della NATO in Libia.

In questo straordinario quadro di storia caratterizzato dalla comunicazione globale, alcuni hanno creduto trattarsi di una Rivoluzione Francese in salsa araba ritardata di due secoli capace di trasferire valori non più attivi in Occidente in un mondo arabo che dell’Occidente conserva soprattutto l’immagine stereotipata del colonialismo.

Se si eccettua qualche breve momento in cui la rivoluzione araba pareva incidere sull’immobilismo dello scontro israelo palestinese, nulla è cambiato salvo il crollo dell’interesse mediatico per un conflitto che non fa vittime in mezzo ai macelli di esseri umani nei paesi che lo circondano.

La rivolta si dimostra sempre più uno scontro all’interno dell’Islam piuttosto che una lotta per la democrazia e la giustizia sociale. Sotto questo aspetto ciò che accade nella “nicchia” armata del radicalismo islamico palestinese di Hamas (acronimo in arabo di Movimento Islamico di Resistenza) anche se non fa notizia è foriero di possibili cambiamenti.

Fondato nel 1987 dallo sceicco paraplegico Ahmed Yassin (ucciso dagli israeliani) e da Mahmud Zahar (Ministro degli Esteri a Gaza) come estensione della Fratellanza Musulmana egiziana, HAMAS ha in comune con l’OLP di Arafat la liberazione della Palestina dal sionismo ma si oppone alla creazione di uno stato palestinese “democratico” laico e nazionale. Questo iato ideologico ha portato nel giugno 2007 allo scontro armato fra Hamas e al Fatah con 700 morti, con l’espulsione del secondo da Gaza e la costituzione di un governo islamico nella Striscia. A guidare questa guerra civile palestinese è stato il vero leader politico e militare di Hamas Khaled Mashaal. Residente a Damasco, ha diretto anche le varie fasi della Intifada contro Israele legandosi agli interessi dell’Iran, alleato della Siria.

La rivolta araba non poteva non polarizzare politicamente oltre che geograficamente queste sfere di potere palestinese togliendo a Mashaal la sua base operativa in Siria aumentando il potere ed il prestigio del premier di Hamas Ismail Haniyeh a Gaza. Haniyeh non è più contestato come in passato da fanatici sostenitori di un Califfato locale e facilmente eliminati manu militare, ma da gente che chiede come in Egitto “dignità, libertà e lavoro” e a cui il governo ha risposto con l’intervento duro della polizia.

Il 6 febbraio scorso a Doha, Mashaal, sotto gli auspici e gli incentivi finanziari dell’emiro ha cercato di ritrovare una parte del suo potere proponendo la creazione di un governo tecnico di unità nazionale con Abu Mazem primo ministro. Questo significava la fine di un governo indipendente a Gaza e la trasformazione della “resistenza armata” in “lotta popolare”. La reazione furiosa di Gaza e di Ramallah all’ “accordo di Doha” ha condotto alla eliminazione di Mashaal dalla guida di Hamas e con essa l’influenza shiita iraniana su Gaza a favore di quella egiziana.

Questi risvolti minori delle tensioni interne dell’Islam politico in chiave palestinesi rinforzano l’immobilismo del governo israeliano convinto che l’impantanamento della “primavera araba” giochi a suo favore e che lo sviluppo delle sue contraddizioni offrano nel tempo nuove possibili aperture piuttosto che una rinnovata violenza.