Qualche secolo prima dell’era volgare un estremista nazionalista ebreo assassinò Gedaliah, il governatore ebreo della Giudea nominato dai babilonesi. Il mondo rabbinico ebraico ne fu cosi sconvolto che decretò un digiuno che ancora viene osservato.

Un ebreo non è un assassino. Se lo è , è un pazzo come quel medico ebreo americano, religioso, di nome Baruch Goldstein che nel 1994 sparò alla schiena contro arabi che pregavano nella “ Tomba dei Patriarchi” a Hebron e fu ucciso dai sopravvissuti.

Orrore come quello dell’assassinio di Rabin contro cui la destra aveva fomentato ire e minacce e che un paio di rabbini aveva dichiarato “da uccidere” per gli accordi di Oslo che aveva firmato.

Questa volta per vendicare il rapimento e l’uccisione di tre ragazzi ebrei due settimane fa – evento tragico che ha unito nella preghiera l’intera nazione in un silenzio dignitoso che ha varcato i confini di Israele – un gruppo di sei giovani ebrei ha catturato, bruciato, ucciso un giovane arabo israeliano di Gerusalemme cittadino americano.

L’impressione è che questa vendetta abbia come punto di riferimento le frange barbarizzate del secondo club di calcio del Paese “il Beitar”, nazionalista da sempre , con un rumoroso seguito di tifosi sempre più volgare e violento. Il Paese è sgomento ma preferisce attribuirne i moventi alla “banalità” della terza intifada (la seconda lanciata nel settembre 2000 con attacchi terroristici contro civili israeliani aveva ucciso 1062 ebrei e cristiani e 5000 arabi) che continua a fare morti e distruzioni reciproche in base al legittimo processo di rivalsa di due popoli in guerra.

Come se il fuoco potesse essere spento, qui e nel mondo, con la benzina.

Questa crisi ha naturalmente un contorno esterno: il fallimento del tentativo del Segretario di Stato americano Kerry di risolvere negozialmente il conflitto palestinese; la crisi in Siria e in Iraq; il collasso dello stato “nazionale” arabo creato dal colonialismo franco-inglese dopo la Prima Guerra Mondiale; la feroce lotta politica religiosa fra islam sunnita e Islam shiita (non dimentichiamo la violenza delle guerre religiose in Europa del sedicesimo secolo).

Queste convulsioni nella società araba, unite al crollo dell’influenza americana, avevano distratto l’attenzione dalla questione palestinese nonostante la reazione di un governo di unione nazionale fra Hamas di Gaza e al Fatah in Cisgordania.

Il rapimento e l’uccisione di tre ragazzi israeliani sembrava un tentativo di riportare la questione palestinese all’attenzione internazionale. Apriva anche una nuova fase di violenze legata all’emergenza di un crudele ma irrealistico “califfato” sunnita mirante alla ricostruzione uno stato islamico dall’Eufrate alla Spagna e alla lenta ma realistica costituzione di uno stato kurdo che cambia l’ecologia politica della regione minacciando l’unità nazionale di Iran, Turchia, Iraq e Siria.

Questo non spiega lo stato di confusione della condotta israeliana. Due sembrano esserne le ragioni: una politica estera dominata da ciechi interessi partitici in una coalizione governativa debole e l’emergere di elementi estremisti di destra, sempre meno controllati in una democrazia fondata sulla legge.

Il che è strano tenuto conto delle carte che la dirigenza ha in mano da giocare a favore del Paese. Il nemico (tranne Egitto e Giordania) è rimasto lo stesso di prima ma è indebolito. Israele ha raggiunto l’indipendenza energetica con la scoperta di gas sottomarino. Ha una economia solida, che attrae investimenti soprattutto per la sua creatività tecnologica invidiata. Dispone di una potenza militare indispensabile all’Occidente per contrastare le esplosioni politiche islamiche anti-occidentali e anti-democratiche che incominciano a preoccupare Stati con grosse minoranze musulmane, come Russia e Cina. Inoltre Israele mantiene ottimi rapporti col separatismo kurdo deciso a trasformare autonomie locali in uno Stato che potrebbe diventare l’ago della bilancia fra shiiti e sunniti.

La spiegazione della debolezza della politica estera israeliana nasce da una profonda crisi di identità. Dalla tensione non solo fra religiosi e laici, ma fra ricchi e poveri, fra maggioranza ebraica e minoranza araba, cosciente della sua identità palestinese e della sua emarginazione socio-economica.

La parola d’ordine della dirigenza israeliana sembra essere “tener duro”, sino a nuove elezioni che coincideranno, salvo imprevedibili crisi di governo, con quelle americane nel 2016.

Tempi brevi per la storia ma lunghi per provocare disastri.

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