La commissione parlamentare – creata a Gerusalemme per analizzare le cause e la condotta dei vari responsabili della guerra di Gaza – ha incominciato, come doveroso in ogni libera democrazia, a fare il suo lavoro. In concomitanza, una tregua raggiunta con l’apporto dell’Egitto ha fatto scoppiare sui media locali e esteri la guerra delle chiacchiere, accompagnate dalle solite previsioni per il futuro: chi sarà il prossimo primo ministro? Netanyahu ha annunciato la sua volontà di ripresentarsi: anche se le prossime elezioni sono previste fra due anni, si è già candidato e, come ovvio, vincerà o perderà. La giostra delle inutili speculazione è incominciata, mentre la stampa sembra ignorare tre questioni fondamentali:

La prima chi sarà vivo o morto domani mattina. Mi ricordo che nel 1969 fui invitato ad assistere ad un dibattito fra i massimi esperti del Medio Oriente e dell’Egitto con Nasser dopo che era stato battuto, ma popolarmente rimesso al suo posto dala guerra del 1967. La riunione si teneva nel piccolo anfiteatro dell’Istituto Van Leer a Gerusalemme. Fu un tripudio di idee, ipotesi, indagini sociologiche, ecc. Sino al momento in cui un noto professore di Harvard intervenne con questa semplice domanda: e se Nasser morisse? Uno scoppio di ilarità accolse l’ipotesi, specie da parte dei generali e diplomatici. (Come nella risposta di Laplace a Napoleone che gli chiedeva dove mettesse Dio: “ Non è un’ipotesi che mi interessa”). Nasser morì poco tempo dopo e la sua scomparsa cambiò il corso degli avvenimenti nel Medio Oriente.

La seconda questione, qualunque cosa ne pensino gli esperti, riguarda Hamas. Non essendo uno stato ma un movimento di Resistenza, sopravvivere significa vincere.

La terza questione, storicamente e socialmente inspiegabile, sino a quando arabi, palestinesi, antisemiti, liberali di sinistra, continueranno “costituzionalmente” e praticamente a voler distruggere lo stato di Israele opereranno per il suo rafforzamento, sviluppo e successo (per lo meno militare e socioeconomico). Ci è stato solo uomo che comprese questo paradosso. In un discorso tenuto nel 1964 dal tunisino Habib Bourguiba, davanti ai profughi palestinesi a Gerico, disse “Se volete distruggere Israele, fate pace con lui”. L’indomani l’Egitto ruppe le relazioni diplomatiche. Il resto è storia e commenti.

La guerra d’Indipendenza di Israele ne ha permesso la sopravvivenza fisica. Fu vinta da una popolazione ideologicamente impegnata, con solide strutture pre statali e una percentuale di vittime ( parte reduci dai campi di sterminio) in 18 mesi pari a 5 anni delle perdite della Francia nel primo conflitto mondiale. Poi ci fu la cacciata degli ebrei dai paesi arabi che rinforzò demograficamente Israele (l’aggiunta di un milione di cittadini di lingua araba) distruggendo le élite economiche, finanziarie e culturali e la classe media in Iraq, Egitto, Siria, Libia, in parte in Marocco di cui si vedono oggi le conseguenze. L’ottusità , l’antisemitismo sovietico unito alla stupidità dei partiti comunisti e delle élite europee, portarono in Israele oltre un milione di specialisti, scienziati, educatori “prefatti” alle spese dei paesi di provenienza che hanno trasformato Israele in un centro di high tech mondiale. Se all’inizio di questo secolo molti davano per morta l’avventura sionista con una crescente emigrazione israeliana all’estero (una delle comunità ebraiche più popolosa è quella degli Israeliani installatisi a Berlino), alla fine di questo anno l’immigratorio in Israele è stata più alta grazie alle migliaia di ebrei francesi che cercano sicurezza nello stato ebraico portandosi dietro un bagaglio di cultura, finanza, tecnologia inimmaginabile solo tre anni fa.

La guerra di Gaza non ha diminuito la popolazione israeliana, semmai l’ha aumentata coi riservisti venuti dall’estero. Nelle chiacchere giornalistiche Israele, “stato apartheid”, incomincia a scricchiolare di fronte alle minacce di un boicottaggio economico diplomatico, politico internazionale. Forse, dal momento che i governanti israeliani sono abituati a sprecare le opportunità che gli avvenimenti offrono loro.

Una cosa è certa: la guerra di Gaza oltre a rinforzare la compattezza interna sta facendo prendere coscienza delle vere debolezza israeliane: mercato interno troppo piccolo, ingiustizia sociale, basso livello di educazione scolastica, impedimenti linguistici e sopratutto una smoderata fiducia nella capacità tecnologica militare di sostituire la fantasia e l’inventiva umana.

Dove porterà tutto questo? Impossibile immaginarlo anche a causa degli sconvolgimenti internazionali e del crollo della leadership americana. In fondo, come diceva l’economista Keynes, alla fine saremo tutti morti. È vero, ma la scelta di come vivere dipende solo da noi perché come insegna la “scienza della Kabbalah” tutto dipende dal passaggio volontario, in ciascuno di noi, dell’egoismo all’altruismo. Dall’Ego all’Altro e chissà per quanto tempo ancora dal sostegno dei suoi nemici.

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