Il numero delle vittime è il metro giusto o migliore per giudicare la violenza, la gravità, la “moralità” di un conflitto che agli uni appare banditismo e agli altri giusta causa per la libertà la dignità e la giustizia? E’ possibile sempre tracciare una distinzione fra guerra e guerra civile per comprenderne le ragioni? E il sangue umano è ovunque solo rosso oppure ha un peso specifico differente?

In questo primo decennio del XXI secolo 31 conflitti hanno turbato e continuano a turbare la pace nel mondo. Concetto del resto esso pure di difficile definizione dal momento che tutti gli istituti per la pace nati dopo il secondo conflitto mondiale non hanno fatto altro che studiarla dal punto di vista della non-guerra. Ciò che appare chiaro è che il conflitto perde del suo significato umano nella misura in cui si trasforma in numeri e statistiche. Un balenottero ferito o il cucciolo morente sul ciglio di una strada tocca il cuore, spinge a portare soccorso. Un milione di morti di un conflitto (come nel Sudan), quarantamila bambini che muoiono al giorno nel mondo per mancanza di cibo o di cure (secondo l’UNICEF) lasciano la gente indifferente nella stessa misura in cui il ripetersi dello stesso scempio – anche se atroce – diminuisce la presa di coscienza della sua immoralità, ingiustizia e del danno fisico economico culturale e morale che comporta.

Forse questa indifferenza ha anche qualcosa a vedere con il fatto che nella cultura moderna se tutti sanno che dovranno morire, sempre meno ci pensano. Il culto del fisico e le conquiste della medicina sembrano capaci di allontanare la morte nel tempo. Si muore sempre più spesso per cause mal controllate, per eventi che si potevano evitare: l’incidente stradale, la diagnosi medica sbagliata, il fumo, la droga, l’obesità.

Quanto alla immaginaria differenza di “peso specifico” del sangue essa sembra crescere proporzionalmente al crescere della manipolazione mediatica. E’ una componente spesso ignorata del razzismo presente in tutti i 31 conflitti che agitano la società internazionale. Nel caso dei conflitti medio orientali che attraggono una particolare attenzione dei media e coinvolgono tradizionalmente le reazioni emotive della strada più che altrove il “peso” del sangue non è necessariamente legato al numero o alla brutalità delle vittime. Non c’è comune denominatore fra l’emotività e l’interesse creato nel periodo che va dal 2003 ad ogg che ha visto da 140.000 uccisi in Iraq, 16000 nello Yemen, tra i 7000 morti ammazzati di Israele e Palestina e i 20000 morti in Turchia nello scontro fra governo e minoranza curda. Le cose non vanno meglio sugli altri continenti anche se le manifestazioni (più o meno spontanee) di sostegno a questa o a quella parte in conflitto variano molto più a secondo delle mode e delle ipocrisie che delle verità proclamate e difese.

Dobbiamo dunque disperare? No anche perché il tempo degli uomini non è quello degli stati e quello degli stati non è quello della storia. Ciò che dovremmo sforzarci di capire e far capire è l’inadeguatezza di alcuni strumenti di cui ci serviamo – come l’esperienza politica accumulata – per analizzare il problema della pace e della guerra. Più utile sarebbe accettare come assioma che l’una non ha mai prodotto l’altra; che la “pace” che regna indiscussa è quella imposta con le armi (del tipo che gli Zar hanno fatto “regnare” a Varsavia e Assad padre a Hama. Le conseguenze si conoscono. Soprattutto più efficace ed economico – nel più largo senso della parola – sarebbe il diffondere l’idea che il male causato agli altri – poco importa per quale ragione – ricade, prima o poi, sempre su di noi.