La vera notizia – mi dice Edward Luttwak al telefono – nella crisi siriana è la rivelazione che la Turchia non è ne una grande ne una media potenza regionale come per tanto si è creduto o detto.
Questo non vuol dire che le manifestazioni contro Erdogan mettano in pericolo il regime. Significa che il principale membro della NATO, considerato da Washington come alleato principale e essenziale nel mondo islamico, proposto da molti come modello di una democrazia musulmana “moderata” e come fattore di stabilità regionale, non esiste in barba a tutti coloro che lo consideravano – soprattutto per le statistiche del suo sviluppo economico – la “tigre asiatica” del Levante.

A dare agli analisti questa immagine negativa è anzitutto il fatto che la Turchia che ha il più potente esercito del mondo arabo  non è riuscito in due anni a sostenere una rivolta in Siria contro il suo ex alleato Assad. Mentre 5000 miliziani shiiti libanesi hezbollah hanno sconfitto in pochi giorni – assieme a un esercito nazionale stanco e lacerato dal settarismo – i ribelli in zone da loro ritenute inespugnabili.

Inoltre il regime di Erdogan, che ha accomulato successi nel campo dello sviluppo delle infrastrutture, della modernizzazione e dell’economia, si trova scosso da una rivolta “ecologista” anti coercizione religiosa non solo laica nella vita privata e pubblica che arriva alla vigilia di una possibile bolla finanziaria. In tal caso la fuga di capitali scuoterebbe le basi stesse del regime bloccando l’ambizione del Premier di trasformare il periodo dei prossimi dieci anni (nel 2023 ricorre il centenario della fondazione della repubblica turca) in un gigantesco sforzo di trasformazione fisica e politica del paese: un nuovo ponte sul Bosforo, un terzo areoporto che dovrebbe essere il più grande del mondo, un centro finanziario competitivo di Dubai e Londra. L’insieme dei programmi impegnerebbero 400 miliardi di dollari solo in lavori pubblici, metà del valore economico della Turchia che oggi è calcolata a 700 miliardi. Non meno importante per lui é riformare in senso ancora più autoritario la costituzione laica di Ataturk facendosi eleggere futuro presidente una volta raggiunta l’impossibilità statutaria di farsi rieleggere per la quarta volta primo ministro.

Questa pericolosa coincidenza di rabbia giovanile e possibile crisi finanziaria mette in luce quattro incrinature della Turchia moderna.
1. Il fallimento della sua strategia politica di trasformare la Turchia in zona internazionale di pace e stabilità con tutti i suoi vicini; la rottura dell’alleanza storica con Israele che cerca ora di rattoppare con difficoltà; la rottura con l’alleato siriano Assad; il peggioramento dei rapporti con l’Iraq governato da un precario governo shiita; la perdita degli investimenti libici; il rifiuto algerino, tunisino, egiziano di considerare il modello turco come il modello da imitare; la tensione acuita con Cipro per lo sfruttamento del gas sottomarino; lo scontro con la Russia sulla ribellione siriana.

2. Cedimenti della compattezza nazionale che mettono in rilievo una opposizione interna extra istituzionale: rivolta armata curda che ha obbligato Erdogan ad offrire un armistizio dopo 60 mila morti; tensioni più o meno sotterranee con la minoranza Alavi (da distinguersi dagli Alawiti) che formano il 15% della popolazione, religiosamente ai margini dell’Islam tanto sunnita che shiita; un esercito, costizionalmente garante della laicità del paese, decapitato nei suoi alti gradi (70 generali e colonnelli in prigione sotto l’accusa di tentato colpo di stato) a cui disordini interni potrebbe ridare un ruolo attivo (non si deve dimenticare che a tutt’oggi un cadetto che ha frequentato la moschea non è ammesso alle scuole ufficiali); una gioventù non solo musulmana che rifiuta l’ingerenza autoritaria del governo nella sua vita quotidiana; un giornalismo col più alto numero dei suoi membri, dopo probabilmente la Cina, in prigione; una social connection che sfugge al controllo governativo; un corpo accademico di grande valore ma insofferente al crescente autoritarismo.

3. Una regione in convulsione fatta di stati arabi gelosi fra di loro, pretendenti all’egemonia regionale (come l’Arabia Saudita, l’Egitto e in piccolo il Qatar) ma autoparalizzati che sostengono la rivolta siriana con soldi destinati alla guerra ma che non bastano a pagare le spese dei profughi siriani in Turchia e in Giordania.

4. Una moneta che ha perduto 8% del suo valore in poco tempo, un’economia che nel 2013 avrà bisogno di 221 miliardi di dollari di finanziamenti per coprire debiti sopratutto a corto termine. La storia non si ripete ma l’attuale situazione finanziaria turca ricorda quella dell’Irlanda e della Spagna prima del loro catastrofico collasso finanziario. Tuttavia non bisogna dimenticare che la banca centrale turca non solo é cosciente dei rischi che il paese deve affrontare, ma che dispone di 100 miliardi di dollari di riserve e controlla un sistema bancario dotato di notevole flessibilità e liquidità .
Erdogan é uno dei più abili e intelligenti uomini politici della nostra epoca. Sinora non ha mai sbagliato una mossa. Anche adesso dopo due giorni di dichiazioni sprezzanti verso i manifestanti e di banali accuse a sobillazioni estere, sembra aver capito il pericolo per se e per il proprio partito di maggioranza AKP che queste sommosse rappresentano. Un partito che Erdogan sostiene di avere la maggioranza assoluta nel paese ma che di fatto detiene solo una maggioranza relativa (34% a cui la legge elettorale dà automaticamnete il 51%). Erdogan non é un leader corrotto come i dittatori arabi decaduti. Di carte per affrontare con successo questa crisi ne ha molte. Ma deve anche affrontare il pericolo della hubris: la follia di potere con cui gli dei dell’Olimpo accecavano chi diventa schiavo delle proprie ambizioni.

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