Il Salone del Libro Torino e i camici bianchi a domicilio
Non so se è per caso – ammesso che il caso esista – che lo Stato Vaticano sia lo Stato ospite d’onore di quest’anno al Salone del Libro di Torino dall’8 al 12 maggio. Il suo stand si troverà vicino a quello n. 122 dell’Associazione per la Promozione dell’Ospedale in casa.
Sarà una visualizzazione di nuovi sistemi di cure del corpo. Accanto a quelli (con un papa come Francesco) la Chiesa cerca di modernizzare i sistemi di cura dell’anima? Impossibile e pretenzioso dirlo. Quello che di importante potrebbe emergere da questa vicinanza nella vita di ogni giorno è l’uscita dei camici bianchi dalle mura degli ospedali per entrare nelle case dei malati, sino a ieri territorio riservato ai medici di famiglia. Non si tratta solo di flessibilità nuova in un campo d’azione dove le abitudini, le mentalità , il ruolo sociale, gli ingessamenti sindacali, tendono alle volte a mantenere ingessamenti più duraturi di quelli di una gamba rotta. Si tratta piuttosto di una sensibilizzazione voluta dal grande pubblico nei confronti dei suoi rapporti con la professione medica, un tentativo di diminuire l’attenzione dei media su aspetti principalmente drammatici della professione medica – mala medicina o “rivoluzionarie” scoperte – rendendo il pubblico, e sopratutto quello dei pazienti, ignorante dell’esistenza di strutture innovative, utili e gratuite.
Dietro questo sforzo di sensibilizzazione si percepisce anche qualcosa di non meno importante: la necessità di concepire in maniera diversa un rapporto antico fra due tipi di medici. Quello fra il medico di famiglia – erede del ruolo del mago o dell’esperto di medicina tradizionale, là dove esiste come in Cina – e quello del medico ospedaliero, erede del ruolo del filosofo diventato scienziato e dotato di strumenti sempre più raffinati per combattere le malattie.
Si tratta di un rapporto di vocazione e potere che, nel caso italiano, attiva il personale medico associato tanto alla Federazione dei Medici di medicina generale quanto quello dei Medici ospedalieri appartenente, quest’ultimo , a categorie frammentate in capacità sempre più scientifiche e specializzate ma conscio di mancare della visione complessiva del malato che il medico di famiglia ( l’esperto di medicina tradizionale) possiede.
Entrambi i campi, in cui si sviluppa questo delicato rapporto concorrenziale, sono però anche parzialmente responsabili del loro oscuramento al pubblico. I loro portavoce – anche quelli più preparati – hanno difficoltà a distinguere fra lo scopo della diffusione della notizia che non è spesso lo stesso dell’informazione mediatica. La quale – come indica la parola – intende “formare il pubblico” secondo i suoi bisogni di polarizzare l’attenzione piuttosto che aiutarlo a utilizzare meglio le strutture a sua disposizione. Un po’ come succede nello scontro politico dove la lotta per la distribuzione dell’immagine interessa più che della conoscenza dei fatti.
Con la creazione in Italia della Associazione di promozione dell’ospedale in casa, si mira appunto a superare l’invisibile barriera che spesso divide il medico di famiglia, forte della sua esperienza personalizzata del paziente (spesso privo di mezzi terapeutici avanzati) e il medico ospedaliero, ( forte di mezzi terapeutici avanzati ma con conoscenza superficiale del paziente). Il bello di questa Associazione è che si è sviluppata dal basso verso l’alto, come iniziativa di malati e parenti di pazienti che hanno compreso quanto un servizio di ospitalizzazione a domicilio possa unire i vantaggi dei due ruoli medici attraverso l’integrazione della personalizzazione con la specializzazione realizzata nel sistema della visita quotidiana del medico e dell’infermiere in casa .
La casa è il luogo degli affetti e delle memorie, si legge nel comunicato di OSPEDALE A DOMICILIO e può diventare il miglior posto di cura. Può aiutare a usare meglio il tempo che ci è dato da vivere, rendendo più umano il processo inevitabile dell’avvicinamento alla fine.