“Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento”. Queste sono parole di Giovanni Brusca, ex uomo di Cosa Nostra e diventato poi collaboratore di giustizia. L’uomo che azionò col telecomando la bomba che fece saltare in aria il giudice Falcone. Il detenuto a cui sono stati concessi oltre 80 permessi premio. Il carcerato che ha potuto uscire dal carcere ogni 30-45 giorni per far visita alla propria famiglia.

bruscaTramite i suoi legali Brusca ha chiesto, ancora una volta, di scontare gli ultimi due anni della pena che gli restano a casa, agli arresti domiciliari. La procura nazionale antimafia era favorevole in quanto Brusca avrebbe mostrato “segni di ravvedimento”. Per fortuna la Cassazione ha detto no. Ma al netto delle disquisizioni sulla pena di morte, sull’ergastolo, sulla libertà, sull’etica e sulla morale, è evidente che c’è qualcosa che non torna, che c’è qualcosa di sbagliato nella giustizia e anche nell’antimafia. Chi lo spiega ai familiari di quei “molti più di cento, di sicuro meno di duecento” esseri umani che ha ucciso o fatto uccidere Brusca che lui tra un paio d’anni sarà libero di passeggiare per strada e di tornare a vivere? Chi glielo spiega? Io non ho idea di cosa potrebbe pensare il figlio di un morto per mano di Brusca. Credo debba essere davvero animato da tanta misericordia per sopportare che una persona che ha fatto così tanto male, “molti più di cento, di sicuro meno di duecento”, possa ottenere dallo Stato un ritorno alla vita. Cosa hanno ottenuto i morti per mano di Brusca dallo Stato? Cosa ha ottenuto Falcone, cosa ha ottenuto Chinnici, cosa hanno ottenuto gli uomini scorta dallo Stato? Sicuri che non si infanghi la loro memoria? Sicuri che non sia stata già infangata? Eh, ma in Italia l’ergastolo a vita non esiste, obietterebbe qualcuno. Eh ma il carcere è rieducativo, direbbe un altro. Eh, ma è stato proprio Falcone a puntare sui pentiti, aggiungerebbe qualcuno. Tutto vero, ma non può passare l’idea che un assassino appartenente a un’organizzazione criminale come Cosa Nostra che per anni ha fatto a pezzi lo Stato contro cui lottava venga trattato con i guanti della misericordia soltanto perché dopo aver ucciso “molti più di cento, di sicuro meno di duecento” esseri umani ha deciso di collaborare per salvarsi la pelle. Eh, ma se non si offrono incentivi concreti non ci sarebbero i collaboratori di giustizia.

Falcone e BorsellinoSarà pure vero. Ma è una favoletta che si può raccontare nei consessi della magistratura, non a chi ha subito la ferocia mortale della mafia. “Il collaboratore si “pente” per paura, vendetta e convenienza”, ha scritto oggi l’autista del giudice Rocco Chinnici. Se Brusca non avesse deciso di collaborare molte cose non le avremmo sapute, ha detto invece Piero Grasso. A me sinceramente sembra più un alibi per non perdere la faccia davanti agli occhi dei familiari delle vittime, una scusa per potere andare a testa alta davanti alle lapidi dei colleghi morti. Un’arma spuntata per combattere la criminalità organizzata. Mi rifiuto di credere che non ci sia un’altra soluzione. Non so, si inventino degli incentivi diversi ma al contempo convincenti, si trovino altri modi per trattare coi mafiosi (perché di questo si tratta), si valuti caso per caso (perché una persona che uccide un uomo è diversa da una persona che uccide “molti più di cento, di sicuro meno di duecento” esseri umani) però ci deve essere un altro modo. “Non le capisco davvero certe cose, fanno solo rabbia e fanno male. E non parlo a nome mio, non è che questo individuo ha ucciso solo mio marito. Ha fatto le cose più atroci, basta pensare al piccolo Giuseppe Di Matteo. Mi chiedo allora, ma loro ci pensano al mio dolore? E al dolore di tutti gli altri?”. Sono parole di Tina Montinaro, vedova di Antonio, capo scorta del giudice Falcone. Chi è che le risponde?

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