“Con ferma determinazione, esemplare iniziativa e insigne coraggio, presente in abiti civili per indagini di polizia giudiziaria all’interno di un ufficio postale, non esitava ad affrontare due malviventi sorpresi in flagrante rapina e, senza fare uso dell’arma in dotazione per non compromettere l’incolumità delle numerose persone presenti, riusciva a immobilizzare uno di loro. Aggredito proditoriamente alle spalle da altro rapinatore, ingaggiava una violenta colluttazione, nel corso della quale veniva attinto da un colpo d’arma da fuoco. Benché gravemente ferito, tentava di porsi all’inseguimento dei malfattori in fuga prima di accasciarsi esanime al suolo. Fulgido esempio di elette virtù militari e altissimo senso del dovere, spinti fino all’estremo sacrificio”. Con questa motivazione, il 14 maggio del 2009 a Marco Pittoni fu conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Il tenente Marco Pittoni, il 6 giugno 2008, si trovava, insieme ad un collega, all’interno dell’ufficio postale di Pagani (Salerno) quando in esso irruppero tre rapinatori. Pittoni non indossava la divisa. Era in borghese. Non esitò un attimo e intimò ai rapinatori di arrendersi. Uno di loro, un 17enne appartenente al clan Gionta di Castellammare di Stabia, non lo ascoltò. Aprì immediatamente il fuoco contro i due carabinieri. Il tenente Marco Pittoni venne colpito da due proiettili, alla gola e all’addome. Morì all’ospedale Umberto I di Nocera Inferiore dopo un intervento chirurgico.

pittoni

In queste ore sui social circola la sua foto e la sua storia. Inevitabile il parallelismo con la vicenda di Napoli. Si dice che all’epoca i familiari non distrussero alcuno ospedale. Vero. Si dice che non ci furono interviste tv in cui a squarcia gola si inveiva contro l’assassino e si gridava vergogna. Vero. Si dice che non ci furono talk o dibattiti sulla legittima difesa. Vero anche questo. Si dice che nessuno sparò, neanche per protesta, alla casa in cui vivevano i delinquenti. Tutto vero. Ma tutto prevedibile. Il silenzio del sacrificio. Perché nel mondo dell’Arma, che poi altro non è che il mondo della legalità, regnano la compostezza, il senso del dovere, la dignità. È un mondo che purtroppo non fa notizia, che spunta nei trafiletti dei giornali. “Ha fatto il suo dovere e purtroppo è morto”, è il massimo della disquisizione.

Poi ripercorri quello che è successo a Napoli giorni fa e il mondo agli occhi di alcuni si capovolge. Un carabiniere, anche lui senza divisa, con una pistola alla tempia puntata da un rapinatore di 15 anni viene indagato. Perché ha sparato, per come ha reagito, perché ha ucciso. La caserma dei carabinieri è stata circondata e presa di mira. I genitori come reazione hanno devastato un pronto soccorso. Per rabbia. Contro lo Stato, pensano loro, incapace di garantire un futuro a loro figlio. Uno Stato che compie ingiustizie, che non “circoscrive” una semplice rapina. Ma la loro è la rabbia della colpa. Cieca, in ogni senso. La rabbia inconscia che cela le mancanze dei genitori incapaci di porsi un’unica sensata domanda: “Perché ho fallito con mio figlio?”.

La stessa rabbia che probabilmente avrebbero nutrito i genitori del 17enne che ha premuto il grilletto contro il tenente Marco Pittoni. “Io sono un carabiniere”. Quella frase pronunciata in modo ben distinto è lettera morta. L’ha pronunciata anche il carabiniere 23enne indagato per l’omicidio di Ugo Russo. Ma non è servita a nulla. Restano solo la rabbia della colpa e il silenzio del sacrificio.

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