Il veleno di Mostar
Bevendo il veleno e suicidandosi, all’atto della sentenza di condanna per crimini di guerra nella ex Jugoslavia, il generale croato Slobodan Praljak ha mostrato che la guerra non finisce quando si seppelliscono i morti e si stende un trattato di pace. Anche se non ne parli più, anche se in Croazia ora vai al mare, tra barche, hotel e arrosti misti, la guerra rimane, ha tracciato troppi abissi di vendetta, odio, rancore, fallimenti, contrabbandi, processi, che nessuna pace cancella. Butti giù un ponte, un ponte simbolo, il ponte di Mostar, con la dinamite, durante la guerra, il 9 novembre 1993. E anche se con la pace lo ricostruisci e quel luogo ri-diventa uno dei luoghi più belli dell’Europa che si avvicina all’Oriente, esso non è più lo stesso. La bellezza non copre la tragedia. Non la deve coprire. Non è finzione, non è maschera, non è cerone. Anzi la bellezza esiste in quanto ravviva il tragico che è in noi e nella Storia. E così, dopo Mostar, ti chiamano gli altri luoghi non del mare, degli hotel, degli arrosti misti, ma i luoghi dei cecchini, delle stragi, delle mutilazioni, dei bombardamenti, Sarajevo, Belgrado, Srebrenica, Vukovar, Dubrovnik, Gorazde. “Noi siamo semi nel vento / e il nostro destino / è morire in un altro” – leggevo questa poesia di Stefano Maldini camminando in queste dure terre di vivi e di morti.