Si chiama Valeria, archeologa, disoccupata, pestata a sangue
Si chiama Valeria. Archeologa. Precaria, disoccupata, come tutti quelli che hanno studiato arte e storia nel paese dell’arte e della storia. Madre di una bambina, cappelli biondi, occhi bellissimi. Doveva fare delle conferenze su archeologia e criminalità, la sua specializzazione. Mentre un dentista ti chiede 2mila euro per qualche dente, nel paese dell’arte e della storia se ti chiedono di fare conferenze sulla criminalità legata al contrabbando di reperti archeologici, le devi fare gratis. Cena offerta, ma niente euro in tasca. Solo complimenti e arrivederci. Doveva fare queste conferenze. Un giorno, però, iniziò a non rispondere più al telefono. Si cancellò da facebook, whatshapp, twitter, messanger. Non rispose più. Silenzio per settimane. Conferenze cancellate. Pensammo che si fosse stancata del paese dell’arte e della storia, che lascia disoccupati i professionisti dell’arte e della storia. Lo capimmo dopo il motivo. Da settimane era all’ospedale. Suo marito l’aveva picchiata a sangue. Il volto era sconvolto dalle botte. Non fece più quelle conferenze. Senza lavoro, con una bambina a carico e con un corpo pestato dalla violenza, è ancora lì che chiede a questo stramaledetto paese che cosa debba fare una persona onesta per vivere con decenza e rispetto.