Cucine in chiesa
E allora mettete le cucine nelle chiese. Sono arrivati centinaia di commenti al mio pezzo di ieri in cui dicevo che le chiese non possono trasformarsi in ristoranti, seppure di carità. Un mare di repliche che mi ribadiscono che gli edifici di culto, dalle cattedrali agli edifici moderni, debbono ospitare pranzi e cene per barboni, poveri, diseredati, immigrati, perché così il Cristianesimo ritorna alle origini del suo fondatore, con tanto di lezioncina filologica sulla messa, durante la quale, come sappiamo tutti, con l’ostia si mangia il corpo e il sangue di Cristo. Dunque, se le chiese devono diventare ristoranti della carità per 200-300 persone a pasto, occorre che si attrezzino ad essere veramente ristoranti, ovvero devono allestire cucine, fornelli, friggitrici, lavapiatti, detersivi, accanto ad altari, confessionali, polittici, reliquari, tabernacoli, pulpiti, e, dove non è possibile, anche al loro posto. Ci sarà fumo che intossica gli affreschi trecenteschi? Non importa. L’importante è aiutare il prossimo. Ci saranno fiamme e fuochi accanto a Michelangelo o Raffaello? Non importa. Una vita umana che soffre e viene accudita vale più di tutta la storia dell’arte. Il grande rischio di simili iniziative, apparentemente francescane, è quello di mettere in opposizione, in conflitto, due valori positivi: da una parte, l’aiuto agli affamati e, dall’altra parte, la preservazione dell’arte come secolare testimonianza della grandezza dell’uomo che si innalza a Dio tributandogli splendore e bellezza. Quando due cose giuste vengono messe in conflitto, vi è sempre una sconfitta. Ed è quanto accade se riduciamo una chiesa monumentale a luogo di ristoro. I due valori positivi – donare e preservare la grandezza – devono essere esaltati entrambi, senza però farli entrare reciprocamente in guerra.