La malattia che non si può curare
Notte in ospedale, reparto di Nefrologia, Cisanello (Pisa), giorni di Natale. Camminando tra le stanze delle degenze, i corridoi, le stanze delle infermiere, le sala d’aspetto, i bagni, non vi ho visto appeso alle pareti un solo crocifisso. Che tristezza guardare per ore e ore, davanti a me, pareti bianche, asettiche, anestetizzate, prive di qualunque segno di riconoscimento comune. Mi sono sentito più solo senza simboli di vicinanza a cui confessare i miei pensieri, i miei dolori. Che calore – anche per un ateaccio come me – aver potuto vedere, durante la lunga notte, il corpo gracile e perduto di Gesù Cristo appeso lassù in alto. Non avrebbe offeso nessuno. Avrebbe rincuorato molti. Invece niente. E poi nessun presepe su un tavolino, sopra un mobile, fosse anche sopra una sedia. Niente di niente. Solo la rigida, glaciale, scientifica, puntuale osservanza delle cure, delle farmacologie, delle iniezioni, delle radiografie, dei prelievi di sangue, dei dosaggi delle pasticche, come se l’anima nostra non si ammalasse come si ammala il midollo osseo, il fegato, i reni. Come se l’animaccia nostra non si ammalasse di più, più a lungo, più duramente, prendendo consapevolezza di “quell’agente patogeno, mille volte più virulento di tutti i microbi, l’idea di essere malati” (Marcel Proust) e non avendo di fronte a questa consapevolezza nessun segno di grazia, di speranza, di visione, fosse anche di semplice ristorazione, se non lo spazio vuoto, sterile, disinfettato di queste maledette pareti ospedaliere. Sono uscito dall’ospedale, più solo, forse curato, forse più ammalato.