Morte in ospedale
I familiari sono arrivati alla spicciolata, prima i figli, poi i nipoti. Il vecchio, sul letto d’ospedale di Pisa, reparto Nefrologia, naso affilato, occhi incavati, bocca spalancata, stava morendo. La macchina cardiometrica, accanto al guanciale, che rilevava la frequenza del cuore, emetteva un suono scomposto nel ritmo. Ogni tanto uno di loro usciva, per chiudere gli occhi in pianto, poi rientrava, come se non volesse perdere gli ultimi battiti di vita del padre, del nonno. Ero nella stanza davanti. Seguivo tutto. Avevo pianto davanti alla Peste a Lucca, la grandissima tela del pittore Lorenzo Viani, in cui cadaveri di bambini giacevano a terra con le madri e i padri che si straziavano della loro morte. Oppure davanti la Benedezione dei morti del mare, sempre di Viani. Ma era un pianto interiore, estasiato dalla potenza dell’uomo di ricreare la morte senza viverla. Qui una vita moriva davvero, come avevo visto spirare davanti a me familiari e amici. All’improvviso il suono cardiometrico si è fatto continuo e la nipote più giovane ha cominciato a chiamarlo con voce spezzata: “Nonno, nonno, nonno, nonno”. Io, nell’altra stanza, mi è sorta in gola silenziosamente un’invocazione che mai ho pronunciato se non da bambino: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori e non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male. Amen. Quando ho rivolto di nuovo gli occhi alla loro stanza, gli infermieri raccoglievano in un saccone il pigiama, il pannolone, le garze. Un’altra vita aveva lasciato il dolore umano per andare non so se tra i vermi o gli dei immortali.