Di nessun partito
«Penso che l’uomo sia un tutto, e quando qualcuno mi dice “sono di destra” o “sono di sinistra”, ho l’impressione che si presenti come un uomo a metà! È una questione priva di interesse». È per questo, per questa stessa impressione di Ernest Jünger, che la politica dei partiti, delle candidature, delle alleanze, delle leggi editoriali, non mi interessa, sebbene rispetti quelle persone che invece sentono di aderire ad un partito e dunque di identificarsi con una parte. Guardo questa politica delle parti e delle alleanze con la stessa marmorea distanza con cui un gatto guarda i miei esercizi sul letto, con cui un albero si distacca da ciò che accade sotto le sue fronde. Perché? Perché appunto i politici vedono divisioni, conflitti, tradimenti, rancori, nascondimenti, spartizioni, dove io invece cerco – inutilmente, forse – fratellanze, mani tese, figliolanze, ricongiungimenti, abbracci, inseminazioni, doglie e parti condivisi. Quando sento dire che uno è di destra, mi immagino tutte le cose che lo distanziano da quello che è di sinistra. E sono molto poche, rispetto a tutto ciò che li unisce, a tutto quanto li rende non uguali, non indistinti, non sovrapponibili, ma prossimi, contigui, fraterni non per obbligo o per dovere (come vorrebbe la sinistra), distinti non per obbligo o per dovere (come vorrebbe la destra), ma fraterni e distinti allo stesso punto, di una fratellanza e di una distinzione, che la politica deve saper esaltare in grandezza, non frantumare: quando si esalta solo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, chi ne perde è soltanto la persona, nella sua interezza, in favore di una sola sua parte.