L’abbazia rinata nella voce di un poeta
Fanno convegni, accordi bilaterali, trilaterali, sul turismo, sui flussi dei visitatori, sulle flessioni degli arrivi e delle partenze, pensando che da quelle lunghe tavole rotonde assiepate di dati, statistiche, introiti e spese, arrivi la ricetta salvifica per dar vita alla vita della bellezza italiana, ma poi ad incendiare un’abbazia fiorentina, nell’anno del suo millesimo anno, salendo le scalinate che, da Piazzale Michelangelo, portano al riposo tombale dei mortali e ad una delle basiliche più soggioganti della cristianità, è stato un poeta, le sue parole nude, il suo canto nudo, in mezzo all’ampia navata centrale. Tantissime persone richiamate, mille, mille cinquecento, duemila, duemilacinquecento, richiamate non da accordi bilaterali, trilaterali, enti nazionali, offerte turistiche, pacchetti viaggio, progetti europei, partnership, previsioni di competenze e tutta quell’inutile impalcatura di carte, protocolli, intese, volte a condizionare e indirizzare l’incondizionabile desiderio umano di conoscere ed esperire, ma un semplice microfono acceso sulla bocca di un poeta. È sempre così, attorno alla bellezza. Essa si accende solo nel vivo della tua febbrile esperienza. Fuori da questo, fuori da questa esperienza, la bellezza è pietra muta. Lo hanno saputo bene le genti venute al richiamato avvenimento. È accaduto a Firenze, con un poeta italiano, in un’abbazia benedettina. Lui era Davide Rondoni, lei San Miniato al Monte, retta da padre Bernardo, in un giorno qualunque – ma commosso, forse indimenticato – del suo millesimo anno.