IMG_7270In fondo era ampiamente prevedibile: nell’arte l’astrazione, che è stata la lingua prevalente del Novecento, non poteva vivere a lungo come dominante, come egemonica, perché l’uomo non vive senza segni, senza simboli, che l’astrazione a lungo ha soppresso pensando di darsi completamente asignica, asimbolica, analfabetica, gesto puro senza connotati di razionale lettura, come invece accade leggendo un romanzo, una poesia (le parole sono segni), guardando uno spettacolo teatrale (i personaggi sono catene di segni), ascoltando una canzone (i brani sono successioni di segni), seguendo un film (trama, lingua e ripresa cinematografica sono alfabeto signico). Il gesto puro, il monocromo, il getto improvviso di tinta sulla tela, l’informe tratto, non potevano resistere come una strada espressiva dominante di lunga durata e di larga condivisione, perché appunto mancavano i fondamenti per resistere. Ed infatti alcuni dei primi astrattisti (si pensi, in Italia, a Giacomo Balla) rifiutarono con l’avanzare del tempo l’astrattismo che avevano fondato nei primi due decenni del Novecento tornando alla figurazione. E più sono passati i decenni, più il linguaggio astratto, se da un lato ha permeato la società, dall’altro si è sterilizzato precocemente, trovando artisti d’inaudito acume nel Secondo Novecento (da noi Vinicio Berti) che intuirono, già negli anni Quaranta e Cinquanta, che l’astrazione non potesse fare a meno del segno, del simbolo, dell’alfabeto. Poteva l’astrazione continuare a replicare, in forme e varianti diverse, ciò che facevano Malevič, Rodčenko, Laroniov, Mondrian, Van Doesburg, Klee, già tra Anni Dieci e Venti di un secolo fa? Potevano esserci epigoni di epigoni di Emilio Vedova e Lucio Fontana? Potevano replicarsi per altri decenni i cloni postumi di Pollock? L’astrazione senza connotati signici e simbolici è, alla lunga, una bocca aperta che non emette voce.

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