Con l’avvicinarsi della prima decade della guerra fra Israele e Hamas a Gaza la domanda non è come finirà – le battaglie si sa come incominciano ma non come finiscono- ma cosa distingue questa terza Intifada palestinese dalle due precedenti.

La prima, detta delle pietre, fu un sollevamento popolare a cui mise fine più Arafat che Rabin.

La seconda, lanciata da Arafat, fu una offensiva terroristica che causò oltre mille morti civili in Israele, usando un’arma che al momento tanto gli Arabi che Israele credettero invincibile: l’uso della bomba-uomo, dell’attaccante suicida.

Questa terza intifada (intifada significa, scuotimento, risveglio) lanciata da Gaza, ma non dal governo di Gaza e contro la volontà del presidente dell’Autonomia palestinese che aveva appena firmato un accordo di unione nazionale con Hamas, è il tentativo – osservato con attenzione da tutti i sistemi militari politici – di inserire il razzo o il velivolo senza pilota – nella guerra fra stato e popolo (o tribù, o minoranza secessionista o distruzione di popolazione ribelle). Nel caso specifico nello scontro fra lo stato di Israele e parte del popolo palestinese, simbolo del vittimismo .

Lo scopo di Hamas appare di fiaccare la resistenza civile israeliana ponendo il suo diviso governo nella necessità di trovare un accordo per evitare perdite umane politicamente ed elettoralmente insostenibili. Non ha funzionato a causa del muro di difesa tecnologico che continua a stupire gli stessi israeliani: 500 missili lanciati sulla “grande Tel Aviv “ e nessuna vittima pur provocando danni economici, turistici. Su come e perché questo avviene si stanno già scrivendo manuali militari e religiosi (un certo concorso della Provvidenza è difficile negare). Allo stesso tempo ha unito la nazione israeliana e il governo invece di dividerli dimostrato l’impotenza della diplomazia americana. Nuovo colpo al prestigio di Obama.

Lo scopo israeliano è di portare la popolazione di Gaza alla disobbedienza delle frange estremiste islamiche che mirano a farsi riconoscere come interlocutore privilegiato. Un primo segno di rottura di compattezza lo si è avuto sabato quando una parte delle popolazione di Gaza disobbedendo agli appelli di Hamas si è spostata al nord su avvertimento di una prossima azione militare israeliana .

Ma il fulcro della battaglia – che potrebbe essere anche il punto di rottura della guerra – è un altro: la capacità dei palestinesi di nascondere agli attacchi aerei israeliani i depositi sotterranei di missili specie quelli a lunga portata consegnati dall’Iran. In questo settore la tecnologia aerea di Israele non ha raggiunto i suoi scopi e lascia ad Hamas la speranza che Israele si decida finalmente ad entrare nella striscia con forze militari, come in passato. In altre parole cadere nella trappola delle forze palestinesi nascoste (come nel caso del Vietnam) e imprendibili capaci di procurare molte vittime.

Sino a venerdì la pressione israeliana è stata puramente psicologica: preparazione della grande offensiva che non vuole lanciare, movimento di carri (che nell’abitato non servono ma sono molto fotogenici per i media internazionali), mobilitazione crescente di truppe. A partire da venerdì’ c’è stato il primo contatto a fuoco con l’entrata in vari punti della striscia di Gaza di truppe speciali che mirano all’uccisione di miliziani di Hamas e soprattutto alla identificazione dei bunker sotterranei dove sono accatastati ancora migliaia di missili.

Anche se il Premier Netanyahu avverte il paese che la guerra sarà lunga, sarà proprio la scoperta di questi bunker ad accorciarla. Non dimentichiamo che per otto anni tutto l’apparato di intelligence israeliano ha cercato invano la prigione del “soldato Shalit” (Shalit era rinchiuso, esattamente come i missili, in stanze irraggiungibili sotto costruzioni civili abitate. Per questo Israele ha chiesto agli abitanti di evacuare prima di intervenire con nuove bombe perforanti.

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