Smettiamola con la palla dei “lavori che gli italiani non vogliono più fare”
Tra tutto il ciarpame di frasi fatte e retorica spicciola che si incontra imbattendosi nell’analisi del fenomeno dell’immigrazione in Italia, si trovano spesso vere e proprie perle di buonismo, tanto che a volte, più che parlare di politica, pare di entrare in una competizione al rialzo con da un lato gli articolisti più radical chic del panorama della sinistra italiana e dall’altro i vignettisti più casti di Famiglia Cristiana. In questa singolare competizione capita altresì che alla fine scappi pure un sorriso, poiché di fronte a certi artifici del pensiero unico, abbattuti i confini che ci legano ad un dialogo ancora razionale, si può solo premiare la sofisticata capacità di spiattellare ragionamenti sempre più scollegati dalla realtà. Ragionamenti che agiscono in un microcosmo di costruzione di certezze moraliste e moralizzanti, in una sorta di nichilistica e consapevole discesa nei meandri del non reale, in cui l’uscita più lecita e corretta diventa quella più aliena dal mondo.
C’è tuttavia un limite a questo singolare esercizio, un limite che personalmente non riesco a travalicare, ed è quello che mi si presenta davanti quando sento dire che “i migranti sono preziosi perché fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare”. In genere quanto sento questa frase fermo tutto, riprendo un briciolo di raziocinio e tento con tutto me stesso di esprimere un qualche costrutto ancora definibile come razionale. Se ci si vuole quantomeno provare, è necessario dire che questa è una storia che parte da lontano.
Parte da anni in cui in una sinistra pur già in preda a travagli ideologici e metamorfosi politiche, la dimensione di difesa del lavoro nazionale ancora albergava, forse perché ancora non messa in crisi dal forte fenomeno migratorio in entrata che cominciò a coinvolgere l’Italia dagli anni Novanta. Fu proprio nei Novanta che questa dimensione di difesa nazionale cominciò ad incrinarsi, a venire accantonata. Alle porte c’era una moda, un fenomeno poi divenuto di massa, sospinto da tendenza salottiera; quello del buonismo applicato all’immigrazione, del migrante come superuomo, non più Nietzschiano ma Veltroniano e Boldriniano, percorso ultimo di completamento culturale dell’Individuo con la I maiuscola. C’era il cantico del cittadino senza terra, che combatteva contro la destra fascista, contro il leghismo razzista, contro le diffidenze e le discriminazioni. Una sorta di saga supereroica in cui la parte del buono per eccellenza era sempre giocata dal migrante e dal suo carico di disperazione. Una saga a fumetti in cui il carboncino ha finito col dipingere tinte sempre più fosche, aprendo una spaccatura tra il mondo del lavoro e la politica, tra il mondo salariato e pure quei sindacati che invece avrebbero dovuto rappresentarlo e difenderlo. Una lode alla Purezza Migrante che oggi viene spiattellata in qualsiasi discorso tenti di approcciarsi ad una immigrazione deregolamentata e foriera di sfruttamento e lucro, pure da esponenti sindacali di recente estrazione e fama. Un repertorio ricco di frasi fatte, di rifiuto all’analisi complessa, di salmi totalizzanti, una Messa del Mare in piena regola, in cui non solo la mera ricerca del vero non trova più spazio, ma anche le fondamenta stesse di una sinistra popolare vengono spazzate via dal verbo globalizzante e politicamente corretto.
Dire oggi che certi lavori gli italiani non li vogliono più fare significa ripetere una frase tanto modaiola quanto insulsa, poiché non tiene conto dei basilari fenomeni di sfruttamento che l’immigrazione senza frontiere scatena nei meandri più difficili del mercato del lavoro italiano. Significa non rendersi conto di come la clandestinità e il lavoro a nero, spesso ad essa collegato, finisca con il creare una competizione al ribasso in moltissime categorie professionali, specialmente le più umili e meno specializzate. Basterebbe mettere il naso in moltissimi di quei luoghi di lavoro non raggiunti dai sorrisi del grande sindacato per vedere con i propri occhi come, al contrario, moltissima della manodopera illegale in arrivo sia reclutata per compiere mansioni nella più totale mancanza di norme igieniche, sanitarie, per espletare turni massacranti nei ristoranti e negli alberghi delle stagioni estive, nei cantieri edili, lavorando senza un limite di ore e carico per stipendi irrisori, vivendo in tuguri. Ci sono vere e proprie impalcature di ricatto nei confronti di lavoratori clandestini che per continuare a vivere nel nostro paese spesso devono sottostare a ricatti infamanti, o venire reclutati pure dalla malavita organizzata del Meridione, per raccogliere pomidori in un regime pressoché schiavista. Pure il recente scandalo dell’accoglienza targato Buzzi & compagnia ci fa capire come il fenomeno dell’Accoglienza con la A maiuscola nasconda al suo interno abnormi mostruosità, in un business collaterale. Il passo successivo sarebbe quello di alzare il velo della mera cronaca giudiziaria e vedere cosa si cela nei posti di lavoro meno visibili, meno tutelati. Cosa si cela nelle periferie, in molti cantieri, in molta ristorazione. Si vedrà come la “guerra tra poveri” non sia affatto un fenomeno foraggiato dai cattivoni Salvini e Lega Nord, ma come sia una dinamica in atto da tempo e che già coinvolge numerosissimi lavoratori nazionali in una guerra al ribasso, ribasso delle proprie tutele e dei propri diritti. Il migrante irregolare, e l’immigrazione clandestina in generale diventano così il primo strumento atto a garantire questa trafila industriale di lucro, materia prima per l’oliatissima macchina dello sfruttamento dell’immigrazione. E chi accusa gli italiani di “non voler più fare certi mestieri”, garantisce la sopravvivenza di tutto il meccanismo. In primo luogo fornendo una informazione falsa, poiché ci sono moltissimi nostri connazionali che, in Italia o quando costretti all’estero, si riducono ormai a gareggiare al ribasso e compiere lavori degradanti e al confine del lecito. E in secondo luogo perché il rifiutarsi di sottostare a tutte queste dinamiche, pure sul luogo di lavoro, non significa non voler lavorare, ma significa voler lavorare con dignità, significa essere consci che il lavoro è un diritto che una politica degna di questo nome deve tutelare, su scala locale e nazionale. Frasi come questa sono un regalo a quello che di più antinazionale e antipopolare c’è in questo mondo.
Pure l’esercito di riserva di cui parlava un Marx si rifaceva esattamente alla capacità di reclutare sottoproletariato e manodopera straniera in condizioni disastrose per perpetuare meccanismi di sfruttamento funzionali. Funzionali oggi, forse, proprio a quella sinistra che alla dignità del lavoratore preferisce spesso la Cooperativa dell’Accoglienza. Cooperativa che, al contrario del lavoro tutelato, pare non conoscere crisi.