Propongo quest’oggi una analisi del voto di Luca Squeri, imprenditore e deputato di Forza Italia, già consigliere della Confcommercio di Milano e politico da sempre affine alle sensibilità del territorio milanese, nonché al rapporto dell’economia locale con l’amministrazione politica nazionale. Una intervista basata non solo sulla valutazione dell’attuale scenario politico, ma soprattutto sull’estrema divisione territoriale del voto emersa dopo il 4 marzo, con una Italia quasi divisa in due in tema di preferenze elettorali.

 

Onorevole Squeri, quale valore secondo lei, più di ogni altro, è emerso dalle recenti elezioni?

Un valore sicuramente chiaro è l’arretramento della sinistra tradizionale, arretramento che io imputo soprattutto all’assenza nel campo della sicurezza e alle insufficienti misure di contrasto al fenomeno migratorio. Sicuramente a questo deve aggiungersi una lontananza dell’elettorato tradizionale di sinistra rispetto alle ricette in tema di lavoro proposte da Renzi, nonché tante altre promesse fatte e non mantenute che ne hanno fatto precipitare la credibilità. Un altro valore emerso in maniera forte è senz’altro la divisione del voto tra il Nord e il Sud del paese, con un centrodestra che diventa la prima scelta in quasi tutto il Settentrione e un 5 Stelle che probabilmente colma alcune lacune presenti nell’offerta politica riservata al Mezzogiorno in tutti questi anni. Una divisione elettorale che non è affatto casuale ma tracciata sul solco di fratture presenti in maniera latente da decenni e manifestatesi oggi in maniera eclatante.

A quali fratture si riferisce in particolare?

Mi riferisco al modello gestionale offerto fin ora in larghe parti del Meridione, dove una gestione miope dei territori ha ancora troppo spazio. Nei decenni passati poco si è fatto, pur avendo esempi in tutta Europa, per responsabilizzare quelle zone e per renderle in grado di emanciparsi dalla tutela del Nord e da necessità di copertura con fondi provenienti da altre aree. Un cordone ombelicale che non è mai stato spezzato e che al posto di aiutare il Sud l’ha ulteriormente affossato, creando il malcontento che oggi vediamo. Se al posto di puntare su di un sistema responsabilizzante e federale le uniche soluzioni offerte sono quelle dell’assistenzialismo statale o dell’emigrazione non c’è molto da stupirsi, con il fenomeno negli anni ha avuto due rovesci della medaglia: il progressivo aumento del malcontento meridionale e la reazione del leghismo al Nord, che non nascono a caso.

Ci sono gli spazi, secondo lei, per poter portare avanti il tema federale oggi?

Gli spazi si possono trovare se si capisce l’importanza di ripartire dalla valorizzazione e dalla responsabilizzazione, che deve essere uguale per ogni regione e non essere impostata su di un criterio prevedente figli e figliastri. Quella federale è una esigenza pre-politica e pre-elettorale, una riforma che proprio dal voto del 4 marzo potrebbe trovare un serio motore di ripartenza per una riflessione generale rispetto alle cause del voto e delle disparità nel paese. Nel centrodestra questa sensibilità c’è sempre stata, basti pensare alla battaglia per le autonomie e al nostro asse sul tema con la Lega: oggi c’è non solo l’occasione politica per riparlarne, ma l’esigenza di prendere atto di un voto che più di altri ci dice che è ora di tornare ad affrontare questa opportunità.

Cosa risponde a chi dice che nel 2018 parlare di federalismo significa essere provincialisti o egoisti?

Dico che fuori dalla storia è chi pretende di governare un paese come il nostro con categorie appartenenti a secoli passati, che oggi gran parte dei nostri vicini europei e anche molte delle superpotenze (basti citare USA e Russia) sono governate con un sistema federale. Lo stesso Toni Iwobi, il senatore nigeriano eletto tra le fila della Lega, si chiedeva come potesse essere federale uno stato come la sua Nigeria e non lo sia ancora l’Italia. Condivido la sua perplessità.

Tracciando dei possibili scenari futuri, il federalismo è un qualcosa che appartiene più alla storia di questo paese o più al suo futuro?

Appartiene ad entrambe. La nostra stupenda nazione eredita una storia plurisecolare che parla di stati regionali, di comuni, di municipi, di repubblicanesimo e anche di democrazia che ha fatto della vicinanza ai territori e del radicamento locale un motivo di splendore invidiato nel mondo. Il processo risorgimentale ha unito queste forze, che tuttavia non vanno livellate al ribasso ma vanno fatte risplendere in una collaborazione basata sul merito, sull’efficienza, sulla responsabilità anche inerente i bilanci e le gestioni locali. Il modello federale è quindi iscritto nel passato di questo paese ma anche nel futuro, perché è lì che l’occidente e il primo mondo stanno riscoprendosi, non negli stati centralisti di matrice settecentesca o ottocentesca.

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